Mamdani, un sindaco a New York

di Fabrizio Casari, direttore di Altrenotizie.org, 9 novembre 2025. La redazione ringrazia il direttore per l’importante contributo

Zhoran Mamdani, musulmano e socialista, proveniente da una famiglia di immigrati, è il nuovo sindaco di New York. La sua vittoria riscuote attenzioni ed allarmi, come segnala il veleno dei media ancorati all’establishment occidentale; questo ne indica un valore oggettivamente superiore a quello che dovrebbe avere l’elezione a sindaco di una grande città metropolitana. Dunque vale la pena di provare ad inquadrarlo.

Per valutare, seppur brevemente, l’affermazione di Mamdani partiamo dal contesto e poi arriviamo al testo. Vince a New York, non a Kansas City. New York è la città simbolo degli Stati Uniti: interamente fondata da immigrati, con 21 milioni di abitanti, la Grande Mela è il luogo dove risiede la quota maggiore di ricchi a livello planetario e dove l’emarginazione per gli ultimi mostra numeri terribili.

Se c’è un luogo che esprime perfettamente la discriminazione classista del modello capitalistico questa è New York. Tempio degli ultraconservatori come dei liberal, per l’impatto persino emotivo e simbolico che ha sull’insieme degli USA e per il ruolo che occupa nell’immaginario internazionale di chi ancora crede nel “sogno americano”, il sindaco della città ha di fronte un mostro di dimensioni gigantesche che propone ogni giorno problemi strutturalmente difficili da risolvere a meno di non ignorarli, magari santificando il modello di Manhattan e ignorando quello di Harlem. E più i riflettori sono accesi, più la decisionalità politica si gioca nell’oscurità del sottobanco.

Mamdani lavorerà in un complesso politico e mediatico che non gli consentirà di applicare buona parte del suo programma. Non interessa qui ed ora, capire quanta parte riuscirà a concretizzare e quanta no, quanti inevitabili compromessi dovrà siglare e fino a dove sarà lui a impattare sul sistema e non il sistema su di lui. Quello che qui importa è capire come la sua affermazione rappresenti una vittoria politica sul trumpismo e come questa può riverberarsi come elemento di valore nazionale negli equilibri elettorali degli Stati Uniti.

Nelle elezioni si deve sempre valutare non solo chi vince ma anche contro chi vince. E’ un musulmano nell’era degli evangelici, un socialista nell’epoca degli ultraliberisti e ha vinto contro Cuomo, erede ed espressione della classe politica più corrotta e manovriera dello stato di New York. Cuomo poi di suo ha uno schifoso curriculum di abusi e molestie sessuali verso le sue collaboratrici e un’agenda di amici con nomi molto discutibili e certo questo ha ulteriormente aggravato il rifiuto a lui e alla sua famiglia.

Mamdani rappresenta un pugno in faccia al suprematismo e al razzismo, ai potentati politico-mafiosi, al classismo e al patriarcato, gli ingredienti che formano l’humus ideologico e il senso comune dell’elettorato trumpista. Ed il primo, immediato significato politico, è che ha vinto nonostante lo stesso Trump si sia esposto ripetutamente, invitando i newyorkesi a non votarlo e minacciando di non versare i fondi federali per la città. Tutto inutile: le parole di Trump hanno probabilmente incrementato il voto per Mamdani.

Le parole della vittoria

In questo contesto c’è un testo che assume importanza, perché con Mamdani hanno fatto irruzione nella scena politica concetti come spesa pubblica, sostegno agli ultimi, edilizia popolare, sostegno alla scuola pubblica, sussidi al traporto pubblico, estensione dei distretti medici, impegno finanziario della città e del suo sistema fiscale per la riduzione della povertà e dell’emarginazione. Non si tratta di un afflato di carità cristiana: il programma di Mamdani mette in discussione le priorità dell’agenda politica di New York e il modello distributivo che guida la destinazione finale della sua ricchezza, e questo rappresenta una sfida al sistema che va ben oltre all’amministrazione della città.

La sua vittoria è un poderoso ceffone a Trump, in particolare alla sua politica di deportazione razziale dei migranti e della sua idea darwiniana e speculatrice dell’economia e l’aver reso inutili gli appelli al voto contro di lui rappresenta una seria sconfitta personale per il tycoon. Ma il significato politico più importante risiede nell’incursione della lotta alla povertà del riequilibrio sociale nel lessico politico e trova il suo ulteriore e maggior valore introducendo il concetto di Stato come ente regolatorio del sistema economico e non più come semplice (e cattiva) amministrazione dei disegni delle élites. Indicare lo Stato come partecipante attivo del disegno di una città o di un Paese, porre le risorse pubbliche come asse su cui far ruotare lo stato sociale comporta una rottura aperta con il discorso pubblico dominante a carattere iperliberista. Un discorso unico fino ad ora interpretato allo stesso modo da democratici e repubblicani, che non si distinguono più nemmeno per il diverso garbo istituzionale.

Mamdani ha dimostrato coraggio politico puntando proprio sulla sua diversità identitaria. Ha rivendicato la sua fede musulmana e socialista nella città dell’11 Settembre e di Wall Street. Proprio il Socialismo, considerato più o meno una bestemmia nel lessico politico statunitense, viene sdoganato e, grazie alla sua vittoria schiacciante, acquista valore e fa intravvedere un’ipoteca sul partito democratico. I due partiti che si disputano la titolarità del potere politico ogni 4 anni sono una estensione l’uno dell’altro, tanto nelle politiche sociali come nella concezione imperiali del ruolo degli Stati Uniti. L’inutilità di un voto diverso è stata sempre compresa in un dogma che vedeva aggettivi politici come quello di “socialista” impresentabili, invotabili, generatori di rifiuto immediato in forza della cultura politica statunitense. Stavolta invece, il dogma è stato seppellito, perché quando il contrasto tra i privilegi dell’1 per cento schiacciano i diritti del restante 99, l’aggettivo socialista è diventato un aggregatore.

Nella vittoria del neosindaco ha inciso anche l’aspetto dell’immagine e della comunicazione. Giovane e musulmano, incarna alla perfezione uno dei falsi miti della cultura statunitense, che già funzionò con Obama, ossia la figura di chi, partito in condizioni di svantaggio, scala le posizioni ed arriva alla meta (ma è finzione: se sei davvero svantaggiato non competi nemmeno per il governo del condominio, sempre che tu ce l’abbia un condominio in cui vivere).

Dotato di uno straordinario talento comunicativo, Mamdani ha impostato la sua campagna diversamente da quella del ceto politico tradizionale, che propone segni estetici di identificazione magari indossando il giubbotto da aviatore se parla con i militari, ma che offre di sé una immagine di upper class e di distanza reale palpabile.

Mamdani, in coerenza estetica con il contenuto della proposta, mangia nelle street food, fa la spesa nei minimarket, si sposta in metro o in bici, tifa allo stadio. Soprattutto, utilizza la strategia del sorriso e non quella delle minacce e degli insulti proprie della maggior parte dei candidati della destra. Una sorta di medicina contro l’odio, che resta la modalità espressiva del trumpismo, marcando una decisiva differenza con gli oppositori e facendone uno dei segreti del suo successo: nessuno scontro, niente rabbia, semmai ironia.

E’ ragionevole ipotizzare che si produrrà uno smottamento interno al partito democratico. Verrà assegnato ulteriore peso alla componente di Sanders e di Ocasio Cortez e la mobilitazione dei centomila volontari che hanno accompagnato la vittoria di New York probabilmente ispirerà altre migliaia di giovani che fino ad ora non vedevano ragioni per votare un partito che appare una variante di quello repubblicano. Se questo innesco tra giovani e componente socialista del PD avrà luogo, l’equilibrio di forze nel PD è destinato a cambiare.

Come a Chicago, dove il sindaco Brandon Johnson chiede lo sciopero generale del Paese contro le deportazioni dei migranti, anche a New York si dà l’affermazione di una nuova leva di politici, meno compromessa con il marciume del sistema, che può incidere negli assetti interni dei Democratici. C’è una porzione di elettorato che vuole un cambiamento reale per riportare il partito democratico in sintonia con gli “esuberi” del modello di società più feroce che ci sia. Alla fine si tratta di questo: o un’agenda per la trasformazione politica del paese e della sua identità inclusiva, di rappresentanza vera del mondo del lavoro, oppure continuare ad interpretare solo la parte di una delle fazioni del deep state che decidono modi, tempi e contenuti dei mandati elettorali.

Si è parlato della posizione di Mamdami contro il genocidio dei palestinesi e dell’aver detto che se Netanyahu o Putin andranno a New York saranno arrestati. Stare con la Palestina è indubbio coraggio politico per un esponente politico statunitense, mentre la seconda è ovviamente un’affermazione solo politica, dal momento che il sindaco di una città ha molti poteri ma non sufficienti per opporsi ad un ordine federale che applicasse le direttive della Casa Bianca. Quanto alle dichiarazioni su Cuba e Venezuela, da lui definite “dittature”, nel notare come non si accompagnino affatto a minacce di sovversione, c’è da stupirsi di chi si stupisce.

Stiamo parlando di un socialista e democratico statunitense, non di un rivoluzionario latinoamericano. E’ un democratico e non un antiimperialista, quindi non ci si può attendere una posizione antiimperialista. Non è alternativo al sistema ma è parte dello stesso. La vittoria di Zhoran Mamdani va dunque festeggiata per quel che è; un freno al definitivo scivolamento nel fascismo 3.0 degli USA. Non gli vanno riposte aspettative di carattere strategico, perché la lezione fondamentale, in politica come nella vita, è che si delude solo chi prima si era illuso.

Lascia un commento