Separazione delle carriere e controriforma della Giustizia: una lettura marxista e leninista

di Alessandro Testa, studioso di questioni filosofiche e teologiche; del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

Nel dibattito sulla cosiddetta “riforma della giustizia”, la proposta di separare le carriere tra magistratura giudicante e requirente è stata presentata come una misura di efficienza e imparzialità. Tuttavia, in una prospettiva marxista-leninista, tale progetto si iscrive nel processo più ampio attraverso cui lo Stato borghese adatta i propri strumenti di controllo alle esigenze del capitale in una fase di crisi strutturale. 

1. Lo Stato e il diritto come sovrastrutture di classe

Secondo l’analisi marxista, lo Stato non è un arbitro neutrale, ma l’organizzazione del potere politico della classe dominante.
Il diritto, in questa visione, è una sovrastruttura funzionale alla conservazione dei rapporti di produzione: traduce in norme giuridiche la volontà del capitale di mantenere il proprio dominio. La magistratura, pur presentata come potere indipendente, è parte integrante di questo apparato. L’indipendenza formale del giudice e del pubblico ministero serve a mascherare l’essenza di classe del diritto: dietro la veste dell’imparzialità giuridica si cela una funzione di ordine, cioè di garanzia della riproduzione sociale e politica dei rapporti capitalistici. 

2. La riforma come ristrutturazione dello Stato borghese

La separazione delle carriere, lungi dall’essere un mero intervento tecnico, risponde a una ristrutturazione dello Stato borghese in senso autoritario e centralizzato.
Negli anni recenti, la crisi del consenso e l’indebolimento della mediazione politica hanno spinto le classi dominanti a rafforzare il controllo sugli apparati repressivi e giudiziari. 
Separare il pubblico ministero dalla magistratura unitaria significa privare l’accusa della sua autonomia e renderla, di fatto, parte dell’apparato esecutivo. In questo modo, il potere politico, espressione diretta del blocco Borghese, può orientare la funzione punitiva dello Stato non più in base all’universalità astratta della legge, ma agli obiettivi concreti di stabilizzazione dell’ordine sociale e di contenimento del conflitto di classe.

3. Giustizia e dominio di classe

L’esperienza storica mostra che dove la pubblica accusa è sottoposta al governo, la giustizia tende ad operare a favore dei detentori del potere economico e politico. Il diritto penale viene così selettivamente applicato: tollerante verso i reati finanziari o fiscali delle élite, inflessibile verso le devianze sociali delle classi subalterne. In una simile configurazione, la giustizia cessa di essere un ambito di garanzia e diventa un dispositivo disciplinare volto a criminalizzare la marginalità, la protesta e l’opposizione politica, funzionale a preservare l’ordine borghese in fasi di crisi e di crescente polarizzazione sociale. In altri termini, la riforma della giustizia tende a razionalizzare la funzione repressiva dello Stato e a ridurre gli spazi di autonomia interna che, nella magistratura unitaria, avevano consentito in taluni momenti storici la denuncia degli abusi del potere politico  ed economico.

4. Lo “Stato di diritto” come ideologia

Nell’ideologia liberale, lo “Stato di diritto” rappresenta il fondamento della democrazia.  Ma nella prospettiva marxista-leninista, questo concetto è un mito ideologico, utile a legittimare il dominio borghese presentandolo come governo della legge invece che degli uomini. 
 Lo Stato di diritto borghese funziona finché non mette in discussione i rapporti di proprietà; diventa flessibile, derogabile, quando la tutela del capitale lo richiede.  La separazione delle carriere, giustificata in nome della “neutralità istituzionale”, non fa che rendere più efficiente questo meccanismo: toglie alla magistratura ogni residuo di autonomia critica e consolida la subordinazione della giustizia alla logica del profitto e della conservazione sociale.

5. Conclusione: la giustizia come campo di lotta

Per la teoria marxista-leninista, la giustizia non è mai neutrale: riflette i rapporti di forza tra le classi. La riforma della separazione delle carriere non è quindi un dettaglio tecnico, ma una tappa nel processo di rafforzamento dello Stato borghese contro il dissenso e contro le potenzialità emancipatrici che, in determinate fasi, possono emergere anche entro le istituzioni.  Difendere l’autonomia della magistratura non significa difendere un’astratta “indipendenza dei poteri”, ma impedire che lo Stato si trasformi definitivamente in strumento monolitico del capitale. La lotta per una giustizia realmente popolare, sottratta all’influenza del profitto e al controllo politico resta, in questa prospettiva, parte integrante della lotta di classe.

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