Vendere le armi all’Ue e al mondo: la guerra doganale come strumento per l’obiettivo americano?

di Fosco Giannini

Donald Trump si è ufficialmente insediato, quale presidente Usa, lo scorso 20 gennaio 2025. Non è passato molto tempo, anche se l’ondata alta e continua di provvedimenti interni legiferati e, soprattutto, di linee internazionali deliberate dal tycoon repubblicano, hanno fatto sì che dal giorno dell’insediamento sembra siano passati anni.

Il Movimento per la Rinascita Comunista (MpRC) ha, in questi mesi, già elaborato una propria “lettura” del fenomeno “trumpiano”, del suo neo protezionismo, del suo neo isolazionismo, della stessa guerra doganale lanciata dall’Amministrazione Trump e, spesso in solitaria, dal presidente stesso.

Il MpRC ha già messo a fuoco come l’attuale protezionismo Usa altro non sia, nonché una linea tipicamente “trumpiana”, un rilancio, nell’attualità, della classica e storica linea della “chiusura dei mercati” che ha segnato l’intera storia del capitalismo, una linea assunta da ogni forma capitalista storica, da ogni Paese capitalista, nel momento in cui una forma capitalista e un Paese capitalista hanno avuto bisogno di una nuova accumulazione del capitale. E come l’isolazionismo imperialista sia sempre stata la proiezione, sulla politica internazionale, dello stesso protezionismo economico. La medesima guerra doganale è parte dell’intero progetto protezionista e isolazionista. Niente di nuovo sul fronte Occidentale.

Il MpRC ha anche offerto una propria “lettura” in relazione alla nuova inclinazione “trumpiana” volta a ratificare un patto con Putin in relazione al conflitto russo-ucraino: nell’essenza, la nuova Amministrazione nordamericana – riconoscendo realisticamente che la Russia ha vinto la guerra contro l’Ucraina e, soprattutto, contro l’immenso fronte economico-militare imperialista (Usa, Nato, Gran Bretagna, Ue, Australia, per citare solo i Paesi e le forze più esposti nella guerra contro Mosca) – riconoscendo la propria sconfitta ha preferito trovare un accordo con la Federazione Russa, un accordo che pare già segnato da due centrali questioni: riconoscere come parti della Federazione Russa le aree territoriali riconquistate dall’esercito russo in Ucraina e far “togliere dalla testa a Zelensky”, cosi come Trump stesso si è espresso, che l’Ucraina possa entrare nella Nato.

L’impetuoso sviluppo dei fatti reali, tuttavia, chiede ai comunisti, e dunque anche al MpRC, di allargare e approfondire il campo dell’analisi, esigenza che non tenteremo di soddisfare in questo articolo, che restringerà il proprio campo visivo e analitico solo sulla questione del riarmo dell’Ue e del rapporto tra tale riarmo e la guerra doganale lanciata da Trump.

Per ciò che riguarda le questioni strategiche evocate dai grandi e concreti fatti in divenire soltanto, in questa sede, due brevi accenni:

-anche il neo protezionismo “trumpiano”, come ogni altra fase protezionista della storia capitalista, tende, essenzialmente, a raccogliere le forze (economiche e militari) nell’intento di sferrare la guerra imperialista nel momento che sarà giudicato più favorevole all’imperialismo stesso (in questa fase storica la guerra strategica imperialista è pensata contro la Repubblica Popolare Cinese);

-lo stesso atteggiamento ondivago di Trump in relazione alla guerra doganale si presenta come l’anticipazione del dilemma (probabilmente di portata storica) dell’imperialismo Usa: “affrontiamo la nostra, nord americana, crisi” – spaventoso debito pubblico; fine dell’acquisto, da parte della Cina, dei titoli di Stato Usa e, dunque, del debito americano; declino dai caratteri irreversibili dell’egemonia mondiale degli Usa e del dollaro- “attraverso una durissima guerra doganale a lungo termine, oppure rientriamo nel gioco economico e commerciale mondiale aperto?”.

La prima opzione (guerra doganale di lunga durata) prevederebbe una titanica capacità di investimento economico interno agli Usa, finalizzata al rilancio di proporzioni storiche dell’industria manifatturiera e dell’occupazione; prevederebbe una “visione” generale del divenire, un nuovo, grande New Deal, che davvero non pare alla portata del miserrimo e rozzo gruppo dirigente generale “trumpiano” e prevederebbe una rottura (proprio in virtù della stessa guerra doganale) con gli interessi della grande e totale industria (merci materiali ed immateriali) big tech nord americana.

La seconda opzione (rientrare nei mercati mondiali togliendosi l’elmetto imperialista e rinunciando ad ogni guerra doganale e alle stesse sanzioni disseminate sul piano internazionale) significherebbe scegliere il terreno privilegiato cinese, della Nuova Via della Seta, dei Brics-plus e del multilateralismo, scegliere, cioè un terreno, per gli Usa, probabilmente già perdente in partenza.

Sta anche in questa grande difficoltà strategica la crisi dell’imperialismo nordamericano, i suoi dubbi, le sue schizofrenie, che possono anche divenire, in progress, lineetattiche.

Ma mettiamo a fuoco la questione che in questa sede vogliano affrontare: il rapporto tra il riarmo dell’Ue e la guerra doganale Usa, o meglio le “fluttuazioni” di questa guerra (il 2 aprile Trump lancia la guerra doganale mondiale, dando a questo giorno il nome “storico” e altisonante di “Liberation Day”, e solo tre giorni dopo sospende i dazi reciproci mondiali, tranne per la Cina, per 90 giorni).

Come leggere questo bipolarismo politico “trumpiano”? Esso è all’interno dell’indecisione strategica Usa (guerra doganale di lungo periodo o rientro, “alla cinese”, nei mercati mondiali’?) e dunque, rispetto a ciò, è una schizofrenia o una tattica, una guerra di movimento? O, ancora, né l’uno né l’altro, ma solo la ricerca, difficile, di una linea?

Proprio in relazione alla questione del riarmo dell’Ue e alle armi nordamericane come merci privilegiate (assieme al gas statunitense) per conquistare i mercati dell’Ue e del mondo, può prendere corpo l’ipotesi che la “schizofrenia” di Trump abbia, in verità, i caratteri di una tattica, magari resa tale dalla materialità delle cose.

Vediamo: secondo lo “Stockholm International Peace Research Institute”, gli Usa hanno aumentato, già nel periodo tra il 2020 ed il 2024, del 233% la vendita di loro armi nei Paesi dell’Ue. Un livello di esportazione della merce militare Usa verso l’Ue già innalzatosi prima del conflitto russo-ucraino, per poi crescere vertiginosamente durante tale conflitto (con la produzione di un “paradosso”: le multinazionali belliche Usa vendono armi agli europei che poi le regalano, con tutti i loro oneri economici e politici, a Zelensky).

Nella fase alta del conflitto russo-ucraino le multinazionali belliche Usa piazzano circa il 40% delle loro merci di guerra ai Paesi dell’Ue. Le grandi multinazionali Usa delle merci di guerra che hanno bisogno del mercato europeo (e dei mercati militari vasti, oltre quelli prodotti, conseguentemente, dalle Basi Usa e Nato nel mondo), sono la Lockheed Martin, la Boeing, la Raytheon, la General Dynamics, tutte gigantesche aziende che Trump vuole ulteriormente legare a sé, unendole a tutto il V capitalismo big tech già, per ora, conquistato da Trump e, per ora, a sé genuflesso.

Come garantire che il mercato europeo delle armi (nordamericane) si stabilizzi? Attraverso due passaggi:

-da una parte attraverso l’evocazione forte del ritiro militare statunitense dal “fronte” europeo e dalla Nato, minaccia diretta a spingere l’Ue al poderoso riarmo di 800 miliardi di euro annunciato dalla presidente della Commissione europea von der Leyen e ad un impegno al riarmo degli stessi Paesi dell’Ue che giunga ad un 5% di ogni Pil nazionale;

-d’altra parte agitando in modo vigoroso, Trump, lo spettro della guerra doganale contro l’Ue e offrendo la fine della stessa guerra doganale come merce di scambio per ottenere la stabilizzazione dei mercati europei per le armi americane (e, vedremo, del gas Usa), mercati europei che garantiscono sin da ora, potendo farlo crescere enormemente, un budget Usa di circa 500 miliardi di dollari.

C’è da aggiungere un “particolare” di non poco conto: i 90 giorni di sospensione dei dazi lanciati da Trump scadranno immediatamente dopo la conclusione del vertice Nato decisa per fine giugno 2025, come a dire che l’impegno per una più alta spesa militare per l’intera Ue e per ogni Paese dell’Ue, e dunque per l’acquisto di nuove partite di armi americane da parte dell’Ue, dovrà essere decisa prima o durante il vertice Nato.

Naturalmente, nella tattica “trumpiana” (se tattica fosse) dello “stop and go” della guerra doganale, il mercato europeo delle armi non è l’unico mercato appetito. Gli Usa hanno collocato loro basi militari in 80 Paesi del mondo, ed ognuno di questi 80 Paesi è un mercato militare grande e ben più che potenziale. Uno sconfinato mercato mondiale per le multinazionali nordamericane della guerra da conquistare, anch’esso, attraverso la minaccia della guerra doganale e la “rinuncia” a tale guerra avendo in cambio, l’imperialismo Usa, la garanzia della vendita delle proprie armi (e del proprio gas).

A rafforzare l’ipotesi che la guerra doganale possa non essere la prima strategia “trumpiana”, ma un suo “piano B”, vi è anche la questione, già evocata, relativa alla merce-gas nordamericana.

Dal 2017 gli Usa sono i maggiori esportatori di gas liquido nel mondo. Giappone, Corea del Sud, Brasile, ma anche Canada, Messico, Croazia, Bangladesh: il volume di affari che gli Usa raggiungono attraverso il trasporto, con le proprie navi, e la vendita del Gnl (gas liquido), è di proporzioni titaniche. Specie in questa fase segnata dalla guerra russo-ucraina (che ha visto la Russia perdere, anche per le sanzioni, importanti fette mondiali di mercato del gas e il prezzo del gas liquido americano diminuire del 25%) gli acquirenti del Gnl statunitense si moltiplicano.

L’Unione europea, come per la merce-armi, è già, potenzialmente, un altro grande mercato per il Gnl nordamericano. Ma anche questo mercato va stabilizzato e il bastone e la carota della guerra dei dazi può essere propedeutica a questa stabilizzazione. “Sussurra” Trump (ai cavalli europei): “Noi il Gnl ve lo vendiamo e ad un prezzo che è di 25 euro per megawattora, e cioè la metà dello stesso prezzo corrente europeo, ma voi teneteci aperto il mercato per le nostre armi, voi aumentate, in ogni Paese Ue, le spese militari del 5% in relazione al Pil, anche perché l’America è stanca di pagare tutta la Nato e la vostra stessa difesa militare”.

L’Italia è anch’essa considerata, da Trump, un potenziale e interessantissimo mercato generale, sia per le armi che per il gas liquido. Sinora, Washington, sembra voler piegare il governo Meloni più con la carota che col bastone. Ma resta il fatto che anche l’Italia, con l’attuale suo governo subordinato e perdente, “underdog”, per utilizzare lo stesso linguaggio della Meloni (e se ci fosse il Pd al governo sempre un governo “underdog” sarebbe) è sull’orlo dell’abisso e imprigionata nella trappola “trumpiana” della doppia linea: o guerra dei dazi o trasformazione in un mercato americano.

Ci sarebbe un’altra strada: uscire dalla tagliola di Trump e dell’imperialismo e stringere con il mondo multilaterale. Con la Cina e con il mondo Brics ormai planetario. Ma per questo occorrerà che i comunisti e le forze liberatrici del Paese e del popolo italiano vincano.

E il MpRC lavora per questa vittoria strategica.

Lascia un commento