Sabato 5 aprile a Genova manifestazione per l’Indipendenza, per la pace e l’unità nazionale.

A cura della redazione a seguire il testo dell’intervento di Nanni Marcenaro responsabile regionale Liguria del MpRC.

Sabato scorso, 5 aprile, si è tenuto a Genova, a poca distanza dalla stazione ferroviaria principale della città, un presidio organizzato dal gruppo informale Contronarrazione, dall’Associazione Indipendenza (Roma), e dalla lista Uniti per la Costituzione (UpC) allo scopo di portare ancora una volta tra la popolazione le istanze più significative in questa congiuntura storica, i temi dell’indipendenza e della sovranità nazionale, e l’esigenza di creare la prospettiva di un’alternativa di società.

All’iniziativa si sono aggregati altri gruppi, come Collettivo Antimperialista per il Multipolarismo (Casale Monferrato), Coordinamento Paradiso (Milano), Ancora Italia, il Circolo Culturale Proletario di Genova, raccogliendo nel momento di massima affluenza circa 150 persone, oltre ai numerosi passanti che affollavano via San Vicenzo, una delle principali vie pedonali di Genova, nel primo pomeriggio. Il Movimento per la Rinascita Comunista ha collaborato all’organizzazione dell’evento ed è intervenuto portando un saluto –di cui riproduciamo il testo in fondo– alla piazza e alle organizzazioni coinvolte per voce del coordinatore per la Liguria.

Si sono così alternati alla parola nell’ordine: il compagno Leonardo Sinigaglia a nome di Contronarrazione; Francesco Labonia dell’Associazione Indipendenza; un esponente di Ancora Italia; Nanni Marcenaro a nome del MpRC; e infine Mattia Crucioli, ispiratore della lista UpC e candidato sindaco di Genova alle elezioni comunali del 25 e 26 maggio pp.vv.

Tutti gli interventi si sono concentrati su vari aspetti delle relazioni tra Unione Europea e Italia, sia nel contesto della presente situazione che vede contrapposte posizioni antitetiche sui rapporti con la Federazione Russa e su quali priorità politiche in effetti promuovano gli interessi delle popolazioni europee piuttosto che quelle delle grandi concentrazioni di capitale, sia sul processo storico della formazione della UE, che nell’ottica del federalismo “spinelliano” auspicava una forte tensione tra Russia e occidente, e della progressiva sottrazione di sovranità che questo ha comportato per i paesi membri, con i risultati che oggi vediamo dispiegarsi in tutta la loro drammaticità.

Dopo gli interventi durati in tutto circa un’ora e venti minuti (disponibili nella loro interezza al seguente indirizzo: https://m.youtube.com/watch?v=fnmRxBxvVmU), i partecipanti al presidio si sono mossi in corteo lungo via San Vincenzo, in un carosello di bandiere italiane, russe, palestinesi, scandendo cori e invitando alla riflessione e al coinvolgimento le numerose persone che affollavano la strada.

Nel corso del corteo tre dei manifestanti hanno distrutto una bandiera dell’Unione Europea come simbolo della prevaricazione e dell’iniquità che stanno colpendo le popolazioni soggette all’autorità del capitale finanziario monopolista, e dei “signori della guerra”. I tre sono stati identificati e denunciati a piede libero dalla Questura di Genova, in primo luogo ai sensi dell’art. 299 c.p.p. che regolamenta “l’offesa a bandiera o emblema di stato estero”.

Il Movimento per la Rinascita Comunista ha immediatamente espresso la sua solidarietà e ha già intrapreso i passi necessari per raccogliere fondi per contribuire al sostegno delle spese legali. La manifestazione si è conclusa con l’invito alla partecipazione all’iniziativa di commemorazione della Liberazione nazionale, il giorno 26 aprile.

Oggi ci siamo uniti a questa iniziativa perché in quanto comunisti siamo internazionalisti, ma appunto come dice la parola stessa l’internazionalismo presuppone l’esistenza delle nazioni. L’internazionalismo è l’intreccio di relazioni tra nazioni distinte che intrattengono con mutuo beneficio rapporti commerciali, economici, e culturali, da pari a pari.

È ben diverso dal cosmopolitismo, che è il travalicamento di qualsiasi confine in nome dell’ideologia liberale, per spalancare i mercati di tutti i paesi all’invasione del capitale finanziario monopolista, annullando le differenze tra ciascuna nazione e assimilandole all’egemonia culturale ed economica di un soggetto imperialista, una presunta nazione indispensabile, cioè superiore, a cui tutte le altre si devono conformare, adottandone il modo di vita, le abitudini, le convinzioni, persino il linguaggio.

Il socialismo e i comunisti invece riconoscono il valore storico di ciascuna nazione nella sua specificità, e perciò sostengono senza indugi l’indipendenza e la sovranità nazionali, e appoggiano incondizionatamente il principio dell’autodeterminazione dei popoli, adoperandosi per promuovere lo sviluppo culturale, sociale, ed economico di ciascuna nazione secondo le caratteristiche che più le sono proprie per le sue tradizioni.

I comunisti così possono e devono essere patriottici –l’Unione Sovietica combatté la Grande Guerra Patriottica, uno dei valori del socialismo per i cinesi è proprio 爱国, patriottismo– perché questo vuole dire soltanto attribuire alla propria nazione pari dignità rispetto a tutte le altre, e non ammettere sotto alcuna condizione che vi possano essere nazioni in qualsiasi rispetto “superiori” o “inferiori” ad altre, cioè rigettare su tutta la linea qualsiasi pretesa sciovinista tipica di uno stato imperialista, come, lo sappiamo bene, gli Stati Uniti d’America.

Questa posizione di sostegno e salvaguardia della specificità delle culture nazionali non è negoziabile, perché è l’unica che può permettere di recuperare quanto vi è di valore in quello che le generazioni passate, per mezzo del lavoro vivo e della fatica fisica o intellettuale di milioni e milioni di persone, ci hanno tramandato, e di dare impulso ad un rinnovamento della società e ad un ringiovanimento della nazione, che fornisca le risorse necessarie a superare la terribile crisi che siamo vivendo.

In questo momento storico infatti, in Europa, ma nel nostro paese in particolare, stiamo passando, dopo decenni di un regime politico che senza temere smentita può essere detto semi-coloniale, ad un regime apertamente e direttamente neocoloniale: vi è differenza tra questi due. Un paese semi-coloniale, infatti, sebbene soffra di sovranità limitata e dovendo rispondere alle direttive del padrone imperialista in materia di politica estera, mantiene un grado di controllo delle proprie politiche interne, sociali, culturali, ed economiche.

Un paese neocoloniale invece, sebbene gli sia riconosciuta formalmente l’indipendenza politica, è completamente assoggettato al padrone imperialista: la sua intera economia e società è strutturata al servizio dello stato sfruttatore, e subisce costantemente da parte di questo una immensa pressione finanziaria e culturale.

Se consideriamo i tre principali metodi adottati dai neocolonialisti per imporre il loro regime, evidenziati dal grande politico e storico marxista-leninista Ghanese Kwame Nkrumah, vediamo quanto la nostra situazione attuale li presenti tutti: aiuti internazionali, nella forma di sostegno militare, che impoveriscono gli stati a cui sono assegnati, e certo gli 800 miliardi di cui oggi politici dalla dubbia integrità parlano con tanta facilità avranno proprio questo risultato; frammentazione degli stati in unità territoriali più piccole che sono più facili da controllare, destabilizzare o da sconfiggere con guerre limitate, cioè la cosiddetta balcanizzazione, a cui si avvicina il progetto di Autonomia Differenziata che ben conosciamo nelle sue strutturali conseguenze distruttive dell’ordine statale e dell’unità della Repubblica; infine, monopolio dell’industria dei mezzi di informazione ed intrattenimento, che ha come risultato lo stravolgimento delle abitudini, e del modo di vita di un paese, per conformarlo a quello delle metropoli imperiali, il cui modo di vita e di pensare è conculcato nelle menti come quello ideale a cui tutti dovrebbero aspirare, come “sogno americano”.

Il fenomeno più evidente di questo processo di assimilazione quindi è l’intrusione nel lessico di una popolazione, nell’utilizzo quotidiano del linguaggio che è appunto uno dei caratteri determinanti per la specificità di una nazione, di termini, espressioni, modi di dire, neologismi trasferiti nella lingua del paese neocoloniale dalla lingua dello stato colonialista, certamente, oggi in Italia, la lingua inglese.

In questo modo l’intera cultura nazionale viene travolta diventando sempre più la scimmiottatura della cultura dell’oppressore, e si trasfigura in un involucro vuoto, una caricatura folcloristica da macchietta –spaghetti, pizza, e mandolino– delle tradizioni di una nazione ad esclusivo uso e consumo dei turisti, che dalle metropoli imperiali in cui si credono molto “civilizzati”, arrivano e guardano le strane usanze dei locali –non cosmopoliti come loro– che ai loro occhi sono alieni e arretrati, ma resi innocui dalla magnanima azione civilizzatrice che li ha sottomessi.

Ed è proprio in questi ultimi anni che stiamo vedendo questo fenomeno ormai dilagare, con l’uso di locuzioni inglesi ormai diffusissimo, non solo tra i giovani, promosso dalla diffusione delle reti sociali e dagli stessi mezzi di comunicazione di massa, dove perfino al telegiornale regionale gli annunciatori utilizzano abitualmente parole e modi di dire della lingua straniera: questo è il risultato dialettico, lo sviluppo logico, della storia dell’Italia semi-coloniale, che è stata l’incubatrice dello stato dei fatti presente, che già molti anni fa, uno dei maggiori intellettuali italiani del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini, aveva intravisto all’orizzonte degli eventi.

Oggi così l’Italia, e l’Europa occidentale in genere, sono sotto ristrutturazione in senso neocoloniale, e subiscono spinte destabilizzatrici che creino le condizioni dell’estrazione del massimo plusvalore dai paesi, a beneficio delle grandi concentrazioni di capitale, e a tutto discapito delle popolazioni, ma questo processo, acceleratosi solo negli ultimi dieci anni, è dovuto a una necessità economica, al non avere alternative per sostenere il peso della immensa bolla speculativa su cui l’intera economia statunitense, e occidentale, è fondata.

Le iniziative promosse dalla Repubblica Popolare della Cina infatti, in particolare la BRI, Belt and Road Initiative, hanno contribuito ad allentare la presa ferrea con cui il neocolonialismo da ormai quasi ottant’anni ha strangolato e derubato i paesi del Sud del mondo, in particolare e soprattutto i paesi Africani, le cui condizioni di povertà diffusa nella popolazione non sono certo dovute a qualsiasi incapacità o arretratezza dei popoli africani ma solo ed esclusivamente al saccheggio sistematico delle loro risorse e manodopera compiuto dalle corporazioni occidentali, allo scopo di ottenere il massimo profitto dalla vendita dei prodotti finiti in Occidente.

Lo sviluppo autonomo, le competenze trasferite, le forze produttive liberate dalle relazioni allacciate tra paesi africani e Repubblica Popolare della Cina –basti pensare che nel 2008 soltanto una manciata di paesi in Africa avevano la Cina come principale controparte commerciale, e oggi invece sono tutti– questi rapporti, internazionalisti, paritari, di mutuo beneficio, così stanno progressivamente riducendo il margine di profitto con cui il capitalismo monopolista finanziario sostiene quotazioni delle aziende principali e debito pubblico statunitense, e permette di mantenere un certo livello del potere d’acquisto dei salari in Occidente, esportando non solo capitali, ma anche, come osserva ancora Kwame Nkrumah, il conflitto sociale che è alimentato da un basso tenore di vita della popolazione.

Ma senz’altro in Europa non ci sono risorse minerarie significative da sfruttare, né la terra arabile è ampiamente disponibile, o il costo della manodopera si trova al livello dei paesi devastati da decenni di neocolonialismo.

È chiaro dunque, che nelle mire dei principali conglomerati bancari-industriali, dominati da pochi soggetti che controllano intere filiere di produzione attraverso innumerevoli partecipazioni azionarie nelle economie di decine e decine di paesi, ci sono i risparmi delle popolazioni europee, accumulati nel corso di decenni, nell’ordine di decine di migliaia di miliardi di dollari statunitensi, nella forma di abitazioni, titoli di stato, obbligazioni, liquidità, con cui costoro, impadronendosene, intendono fare fronte alle probabili volatilità che la situazione geopolitica internazionale produrrà, per salvaguardare la propria posizione dominante.

E se stanno facendo il tentativo di imporre un regime neocoloniale in Occidente è perché, sebbene costretti, sono convinti in un modo o nell’altro di poter dare un giro di vite senza che la popolazione opponga una resistenza significativa, senza che vi sia alcun sussulto di consapevolezza e di dignità contro le oltraggiose decisioni che si stanno prendendo in tutti i campi, contro la distruzione di qualsiasi giustizia sociale, contro la violenza e la guerra che la dittatura della borghesia ci vuole imporre: è il momento di fare capire a questi signori che non ci stiamo più, che è cambiata la tendenza, e che questa piazza, e tutte le altre piazze come questa, è solo il primo segnale di una lotta concreta all’imperialismo USA e al neocolonialismo in tutte le sue forme e ovunque, per l’emancipazione dell’umanità intera.

VIVA L’ITALIA REPUBBLICANA, UNA E INDIVISIBILE!

VIVA IL SOCIALISMO E LA LIBERTÀ!

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