Ancora una volta ospitiamo Alessandro Negrini, regista e poeta, che con il mestiere del linguaggio dell’arte agisce nel mondo e chiama a raccolta altri artisti, affinché esercitino il loro potere di informare, scuotere le coscienze davanti al genocidio di Gaza.

Nel “Satyricon” di Petronio, nella scena della cena di Trimalcione, politici, parvenu, arricchiti, funzionari dello stato e mogli vanesie, mentre non lontano da loro si consumano guerre, discettano a cena a ruota delle cose del mondo, borbottando con luoghi comuni sulla decadenza dei costumi nell’epoca di Nerone.
D’improvviso, inaspettato, prende la parola Echione.
Echione era uno straccivendolo, mestiere umile ma molto rispettato in quanto gli stracci avevano una funzione molto importante: venivano usati per spegnere gli incendi.
E di colpo, lo straccivendolo Echione parla, ma lo fa rivolgendosi all’unico intellettuale presente al convitato: il retore Agamennone.
Echione, col suo linguaggio povero, guarda Agamennone e gli chiede:
– Perché, tu che sai parlare, non parli?-
Secoli e secoli dopo, a poche centinaia di chilometri in linea d’aria dalle spiagge dove quest’estate abbiamo giocato, fatto gli aperitivi, visto e fatto spettacoli sulla libertà, sulla bellezza, a poche centinaia di chilometri da noi, ogni giorno da un anno bambini vengono fatti a pezzi.
Di fronte a questo abominio, il genocidio di un popolo, il popolo palestinese, gli artisti e gli intellettuali, a parte coraggiose eccezioni, tacciono.
Una coscienza senza scandalo è una coscienza alienata, diceva George Bataille: – Cari colleghi, amici, compagni di questo viaggio che ci porta a raccontare la bellezza: dove siete? Dov’è la vostra voce?-
E’ nel tempo ferito dalla disumanità ,che l’arte non può esimersi dal parlare.
Ma oggi l’idea imperante, veicolata dal potere ed assecondata da artisti e intellettuali, a cui è ridotta la funzione dell’arte, è questa: l’autocompiacimento consolatorio, salire su un palco, leggere una poesia, interpretare anche autori immortali che emozionano platee, ma sempre igienizzandolo, evitando il pericolo della rivolta del pensiero, con un pubblico sempre più abituato ad essere in-trattenuto.
Emozionarsi, ma sempre dentro il perimetro del “consolatorio”, del mai mettere in discussione col pensiero e con quelle emozioni, lo status quo. In-trattenuti.
Un emozionarsi ego-riferito, ombelicale, disgiunto da quel tassello necessario per farsi arte e non intrattenimento.
Se l’arte ci rende vivi per qualche istante sempre e solo se chini sul nostro ombelico, solo sulle nostre sconfitte, solo sui nostri amori, solo sui nostri sogni e muti e ciechi e sordi di fronte a quanto sta accadendo, allora la parola arte è semplicemente uno specchio e non una finestra sul mondo.
Perché l’arte sia finestra sul mondo e non intrattenimento consolatorio, deve aprire gli occhi su ciò che sta fuori, oltre a ciò che sta dentro:
perché il dentro e il fuori sono indissolubili, perché siamo il risultato di ciò che sta fuori, perché se muore l’umanità, l’arte è inutile come un libro di pagine bianche.
A che mi serve quel mio emozionare se poi, finito lo spettacolo, finita la pagina, sceso dal palco, ovunque esso sia e comunque si manifesti, non “sento l’altro da me”? Se non percepisco il dolore che non è il mio, non sento nemmeno quello di un intero popolo annientato a pochi passi da noi.
L’arte è lo strumento per riconnettersi con l’umano. Ma se l’umanità la ignora e la ignora oggi nel modo peggiore e più vile, ignorando che in Palestina sta morendo l’umanità, esattamente come accadde nei campi di concentramento, esattamente come nel silenzio di tanti, troppi all’epoca, allora quell’arte è impotente, superflua e complice.
È un arte inutile, genuflessa, cortigiana, è triste quell’arte e aggiungo quel pubblico, che non sa più sentire il mondo che sta fuori, fatto di volti, voci, dolori, resistenza, lotte, sconfitte e poi…sì anche i sogni. Sogni che travalicano il nostro pianerottolo, bussando anche alla nostra porta, dicendoci che la bellezza o è di tutti o è di nessuno; che quell’emozione che vibra dentro solo se riferita a noi, allora è amputata; perché è solo denunciando l’infamia che schiaccia l’umano che ci avvicina ad esercitare anche un altro diritto: il diritto al sogno.
E allora perché gli artisti, tanti, troppi, tacciono? Per paura di perdere il loro status: strette di mano con la nuova corte che consentirà loro altri progetti, spettacoli, film, libri.
Ma ancora una volta: a che serve e a che servirà salire su quei palchi, in quei cinema, a parlare di bellezza, ignorando che stiamo morendo con la nostra anima – tutti – in Palestina?
Accudire soltanto la propria narcisistica sopravvivenza, questo è l’essere artisti oggi, che è anche servitù volontaria: servendo la corte che esige il tacere sull’ignominia, dalla piccola ingiustizia sino al genocidio.
Se l’umanità, il senso dell’umano viene totalmente dismesso, come è stato dismesso a Gaza, a che serviranno quegli spettacoli, quei film, quei libri nati da questa cecità, da questa sordità, da questa viltà?
Perché se l’arte è sorda-cieca-muta, sempre seduta dalla parte comoda del mondo, tutto è solo chiacchiericcio che si fa scherno, col suo silenzio, delle stesse parole che pronuncia. Inutili specchi e non necessarie finestre sul mondo.
E allora questo mio scritto è un messaggio che lancio non solo agli artisti, ma al pubblico.
A tutti noi che frequentiamo teatri, spettacoli, presentazioni: chiediamo ai registi, agli attori, agli scrittori, a tutti: -perché non parli di Gaza? Perché, Tu che conosci le parole, non parli?-
