di Fosco Giannini

Molti sono i tabù che l’umanità, nella sua storia, ha costituito e impresso nelle coscienze dei popoli del mondo: il tabù dell’incesto, dell’assassinio, del furto, del danno contro la proprietà privata. Per demonizzare tali azioni si sono eretti i muri altissimi di orrore morale. Ma per l’orrore più esteso a livello planetario, lo sfruttamento quotidiano dell’uomo sull’uomo e sulla donna non vi è nessun tabù, nessuno timore di praticarlo, se lo si pratica non si va all’inferno, non si è emarginati dalla società, non si è perseguiti per legge, non si è additati come mostri. Solo la totale subordinazione culturale alle leggi del capitale ci evita di pensare che lo sfruttamento legalizzato di una piccola parte dell’umanità sul 90% della stessa umanità sia un orrore ben più vasto dell’incesto, dell’assassinio, del danno alla proprietà privata. Sarà per questo che un fatto spaventoso come quello accaduto lunedì 18 novembre 2024 a Contrada Patacca, territorio disumanizzato tra Ercolano e San Giorgio a Cremano, nel napoletano, e cioè la morte sul lavoro di un ragazzo di 18 anni e due giovani gemelle, è relegato dalla stampa nazionale nelle ultime pagine dei giornali, come negli ultimi spazi delle coscienze di massa e persino in tanta parte delle coscienze politiche, sociali, sindacali? Vi è un fremito, sul paino di massa, che parte dal profondo dell’animo per queste tre morti? No, non vi è, e questa è la sinusoide ideologica normale nel regno del liberismo, del profitto e del mercato.
Ore 15 circa, lunedì 18 novembre, Contrada Patacca: d’improvviso un boato assordante, che a tutti fa pensare all’esplosione del Vesuvio, distrugge e manda in mille pezzi, accasciato su stesso, un cubo di cemento, un capannone, che ospitava un deposito abusivo di fuochi d’artificio. E nell’inferno trovano la morte Samuele, un ragazzo albanese di 18 anni, Sara e Aurora, giovani gemelle. La vita, la storia, è spesso impietosa col proletariato: i tre ragazzi erano al loro primo (e, dunque, maledettamente, l’ultimo) giorno di lavoro. Erano lì dalla mattina: quante ore avrebbero fatto, che salario avrebbero avuto? Quale contratto? Possiamo immaginarlo: tutto al nero, nero come il cielo sopra la fabbrica, dopo l’esplosione. Quando si avvicina capodanno e il mercato dei fuochi d’artificio impazzisce, le ore di lavoro, per gli operai, aumentano, il lavoro si prolunga per tutta la giornata, la sera, la notte. Senza diritti, controlli, garanzie, contratti: quali, peraltro, in una fabbrica abusiva, in un posto di lavoro sconosciuto al mondo, dove imperversa solo il profitto, la fretta di produrre perché l’anno nuovo è alle porte e i fuochi d’artificio non bastano per il mercato, per la richiesta? Chi ha raccolto i resti dei ragazzi ha raccontato che quei resti erano irriconoscibili, che è stato persino difficile dare loro un nome, tanto il fuoco li ha divorati, carbonizzati, tanto l’esplosione li ha fatti a pezzi. La madre delle gemelle vaga disperata e si perde nel deserto ora lugubre di Contrada Patacca; i parenti del diciottenne albanese hanno aspettato, appellandosi ad una speranza disperata, l’identificazione ufficiale dei tre corpi carbonizzati e ridotti a nulla, per non arrendersi al fatto che quei resti fossero davvero Samuel. Essere operai in una fabbrica di fuochi di artificio non è semplice, poiché questo è un lavoro altamente difficile e pericoloso. Tant’è che l’Osservatorio Sicurezza sul lavoro “Vega Engineering” di Mestre ha reso noto che dal 1998 al 2015 ci sono state diciassette esplosioni di fabbriche di fuochi d’artificio in Italia, con 43 morti e 18 feriti, spesso gravi, con amputazioni e cecità. Nel 1975, a Sant’Anastasia, sempre in provincia di Napoli, esplose una fabbrica che produceva colpi per le pistole giocattoli, la “Flobert”, causando 12 morti, 12 contadini da poco divenuti operai e caduti sul fronte del profitto. Bene, nonostante che il lavoro di fochista sia riconosciuto altamente pericoloso e assassino, i tre giovani morti lunedì 18 novembre non avevano avuto nessuna, minima, preparazione per affrontare e maneggiare i fuochi d’artificio, gli esplosivi, i petardi. Arrivati lì chissà da quale miseria, da quale disagio sociale, da quale precarizzazione selvaggia, da quale miserabile disoccupazione, sono stati buttati immediatamente nel fuoco della produzione, nei lampi pirotecnici, dentro una fabbrica abusiva, senza controlli, persa nel deserto dell’interno napoletano maleodorante di camorra. Ma dov’è lo Stato, dove sono le forze dell’ordine, dove sono le forze sindacali: è davvero possibile che nessuno si sia accorto che in quel pezzo di territorio napoletano abbandonato dagli uomini e da dio, e proprio per questo da controllare con più decisione, era sorta una fabbrica fuori da ogni legge e, dunque, una fabbrica della morte? Una fabbrica-tomba per tre ragazzi appena affacciatisi alla vita, al loro primo, lungo, terribile, giorno di impiego?
Vi è una splendida poesia di Pier Paolo Pasolini, sulla morte degli operai al lavoro: “La tosse dell’operaio”, che dice così:
Sento tossire l’operaio che lavora qui sotto;
la sua tosse arriva attraverso le grate che dal pianterreno
danno nel mio giardino. Sicché essa pare risuonare tra le piante
toccate dal sole dell’ultima mattina di bel tempo. Egli,
l’operaio, là sotto, intento al suo lavoro, tossisce ogni tanto,
certamente sicuro che nessuno lo senta. È un male di stagione
ma la sua tosse non è bella; è qualcosa di peggio che influenza.
Egli sopporta il male, e se lo cura, immagino, come noi
da ragazzi.
La vita per lui è rimasta decisamente scomoda;
non l’aspetta nessun riposo, a casa, dopo il lavoro,
come noi, appunto, ragazzi o poveri o quasi poveri.
Guarda, la vita ci pareva consistere tutta in quella povertà,
in cui non si ha diritto neanche, e con naturalezza,
all’uso tranquillo di una latrina o alla solitudine di un letto;
e quando viene il male, esso è accolto eroicamente:
un operaio ha sempre diciotto anni, anche se ha figli
più grandi di lui, nuovi agli eroismi.
Insomma, a quei colpi di tosse
mi si rivela il tragico senso di questo bel sole di ottobre.
Pasolini coglie tutto la sofferenza operaia, la morte sul lavoro quasi come un destino già scritto nel grande libro del capitale, quello dei padroni, non quello di Marx. Sara, Aurora e Samuel, vita appena iniziata, sono stati ridotti a pezzi di carbone. Ma in giro si sente parlare solo di Jannik Sinner, a loro chi ci pensa? Quanti millenni ci saranno voluti per formare il tabù dell’incesto? Un tempo umano infinito. Per formare il tabù dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna occorrerà solo il socialismo, (sì, realizzato!), il suo potere, un tempo socialista lungo volto alla costruzione di un nuovo senso comune di massa (poiché è dalla Legge che si crea la Morale) e che consideri lo sfruttamento dei lavoratori alla stregua dell’assassinio: un orrore!
