Ue, società e rivoluzione: ostacoli e prospettive. Di Nanni Marcenaro

Lo scorso 8 luglio Futura Società ha ospitato un intervento del compagno Fosco Giannini, coordinatore nazionale del MpRC, dal titolo “La crisi sistemica dell’Unione europea e la necessità della rivoluzione” https://futurasocieta.com/2024/07/08/la-crisi-sistemica-dellue-e-la-necessita-della-rivoluzione/#more-2185. Lo stesso Giannini, nel suo pezzo auspicava, in relazione ai temi sollevati, l’apertura di un dibattito, che si apre con questo intervento del compagno Nanni Marcenaro, studioso di questioni filosofiche, autore di saggi su Aristotele e coordinatore del MpRC a Genova.

Di Nanni Marcenaro

Dopo la lettura dell’articolo pubblicato qualche settimana e fa scritto dal compagno Fosco Giannini, ho inteso stendere, in modo affatto informale, alcune riflessioni a proposito di un paio di argomenti, richiamati nel testo, ma che mi sono apparsi richiedere un trattamento che maggiormente si ispiri proprio alla individuazione di quei “flussi carsici” del processo storico su cui giustamente Giannini si era soffermato.

L’articolo in questione, “La crisi sistemica dell’Ue e la necessità della rivoluzione”, è un pezzo assai articolato, con numerosi spunti ed osservazioni su uno spettro molto ampio di questioni, messe in collegamento per tramite delle loro relazioni con il processo di integrazione europeo.

Non si può, innanzitutto, che condividere in larga misura, o meglio del tutto, la ricostruzione che viene compiuta di quest’ultimo, attraverso il parallelo tra le premesse poste alla fondazione del Mec con il Trattato di Roma, e le conclusioni riassunte nei Trattati di Maastricht e di Lisbona.

Pur nella indiscutibile ampiezza della prospettiva su questi fatti, si sarebbe forse comunque potuto dedicare uno o due paragrafi al ruolo che gli Stati Uniti ebbero in tutta quella vicenda, la quale, semplificando molto, può essere considerata come un aspetto dell’attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 2 del Trattato Atlantico, e che fu dunque prepotentemente promossa dagli imperialisti statunitensi, con la prospettiva di potere esercitare un controllo capillare sulle vicende europee in particolare rispetto alle relazioni con Francia e Germania.

Le stesse osservazioni che Giannini fa, riguardo all’accelerazione avuta nella costruzione della UE dopo il dissolvimento ex ufficio dell’URSS, sono a mio parere un’indicazione in tale direzione: non a caso i sei paesi che aderirono al Mec facevano parte della NATO come territori contigui.  In generale comunque è del tutto appropriata l’analisi offerta della struttura e funzioni della UE nei suoi caratteri più distintivi e le risposte fornite per le tre questioni poste su di essa.

C’è da dire comunque che, per quanto sia corretto dire che «l’Ue è […] una finzione storica» e che «gli Stati ed i popoli europei non sono sospinti all’unità da eventi storici sovraordinatori», tuttavia appunto questa unità è solo presentata come mitologia, e nella dinamica concreta del processo storico senza dubbio risponde ad una certa tendenza, del cui carattere i promotori sono consapevoli, e infatti ne intendono mascherare l’essenza più propria.

Riguardo alla seconda domanda che viene posta –se l’UE sia «un destino già scritto, storicamente inevitabile» e se «si dovrebbe o no lottare per […] la stessa conquista della liceità politica e culturale dell’uscita di un paese, di un popolo, di uno Stato dall’Ue»– condivido senz’altro l’analisi con cui è tratteggiata la situazione odierna, in particolar modo i rilievi sulla relazione tra USA e UE e sulla sempre più pronunciata deriva liberista delle sinistre europee, che già comunque partivano da una blanda socialdemocrazia, con l’ideale di uno stato sociale che rendesse sopportabile la «vita servile» della classe lavoratrice.

A tale proposito, tuttavia, ho l’impressione che sia poco realistico ritenere, come si suggerisce nell’articolo, che «le forze della “sinistra” europea» siano «cadute» nell’inganno perpetrato dalle classi dirigenti come mitologia dell’unità europea, così come che «quelle forze “comuniste”» che glissano sul posizionamento «filo NATO e filo UE» di quella sinistra europea, siano cadute in una «trappola politico-filosofica».

Ciò vorrebbe dire che costoro hanno avallato certe posizioni e promosso certe politiche perché in sostanza non avevano una reale contezza della situazione politica in cui si trovavano, e della portata e della forza degli attori con cui si confrontavano.

Si trattava dunque di inetti? Rispondere affermativamente a questa domanda mi sembra irrealistico, soprattutto quando si tratta di una tendenza largamente diffusa a livello dei massimi dirigenti di partito, per periodi molto lunghi di tempo, che in effetti possono essere fatti risalire, sulla base delle fonti primarie, a diversi decenni addietro.

Né meno, a mio parere, abbiamo a che fare con degli inetti oggigiorno: la forza compulsiva della dicotomia irriducibile (i.e. dogmatica, idealista) tra democrazia e autocrazia, rappresentata dai movimenti politici e dagli Stati additati come controllati da forze politiche “illiberali”, “fasciste”, “antisemite”, “autoritarie”, ecc. permette a questa “sinistra” di sostenere le posizioni di cui Giannini dà conto con esemplari dettagli, perché il presupposto è che rispetto al sistema economico capitalista non c’è alternativa, ed è solo nell’ambito dei diritti civili che la società può essere rinnovata, in quanto non è dal sistema economico che dipendono il benessere e una vita felice: la “sinistra” nel sistema politico della democrazia liberale non è altro che la fazione moderata di una “destra” che egemonizza nella sua completezza lo spettro politico, senza lasciare spazio ad alcuna voce alternativa agli schiamazzi dei corifei che cantano le lodi e l’inevitabilità dell’organizzazione capitalista della società.

Viene quindi sottovalutata, sempre a mio parere, l’agenzia intenzionale di queste forze politiche, e uomini e donne concrete, che hanno perseguito un obiettivo ben preciso per vari decenni, a loro volta dissimulando le prospettive ultime delle loro strategie con abile uso di una retorica ben studiata e, spesso, “buonista”, che parlava di “riconciliazione” e “collaborazione di classe”, troppo spesso dimenticando le istanze di coloro a beneficio dei quali tale collaborazione sarebbe dovuta andare.

Allo stesso tempo però, e questo più a proposito alla terza domanda che viene posta riguardo alla UE –se tale entità politica abbia «una propria identità storica, culturale, ideologica»– mi sembra interessante riportare una osservazione che mi è capitato di fare in altre occasioni, senza entrare nel dettaglio degli argomenti offerti nell’articolo da Giannini nella sua risposta, che comunque, anche in quel caso, sono largamente condivisibili, in primo luogo nel rispondere alla domanda su dove andare oltre la UE e sui «cardini politici e teorici» che vengono esposti a riguardo.

È facile notare infatti come l’autore dell’articolo nomini più volte il fenomeno dell’astensionismo, osservando come sia un segno della «crisi sistemica» della UE, di cui affligge la credibilità, poiché appunto apparirebbe come sintomo della mancanza di una tale «identità storica, culturale, ideologica», minando la stabilità del progetto europeo, e definendolo, nella prima occorrenza, addirittura «oggettivamente sovversivo».

Ora, è chiaro che all’interno dell’area dell’astensione non vi possa essere una completa omogeneità riguardo alle motivazioni per cui uno o l’altro cittadino non si rechi alle urne. Bisogna innanzitutto osservare che per le elezioni europee l’affluenza è sempre stata storicamente molto bassa: in occasione delle prime consultazioni nel 1979, che si tennero a solo una settimana di distanza dalle elezioni politiche, vi fu un’affluenza del 61,99%, contro al 90,95% delle politiche di appena sette giorni prima.

Pertanto, in quell’occasione, appena 10 punti percentuali al di sopra delle ultime consultazioni, e considerando che l’affluenza più bassa avuta alle elezioni europee è addirittura del 42,61% nel 2014, non sembra che la sfiducia nei confronti delle istituzioni europee, se misurata sulla magnitudo dell’affluenza, sia in discesa, e semmai sta vedendo una crescita, forse non della fiducia in esse, ma quantomeno nella percezione dei cittadini della loro relativa importanza, laddove tra il 1979 e il 2022 le elezioni politiche in Italia hanno visto un vero e proprio tracollo dal 90% circa al 63,91%, per ben 27 punti percentuali.

Se poi consideriamo il fenomeno dell’astensione in modo ristretto all’Italia, rispetto alle elezioni politiche è facile osservare quanto segue: fino a quelle elezioni, del 1979, l’affluenza non era mai scesa al di sotto del 90%, quindi, durante gli anni ’80 e ’90 e fino alle elezioni del 2008 si è invece mantenuta sopra l’80% senza mai tornare ai livelli precedenti il 1983, languendo in una tendenza discendente costante di elezione in elezione fino all’ 80,63% del 2008. Nelle tre consultazioni successive infine la crescita dell’astensionismo si è velocizzata, con affluenza rispettivamente del 75% (2013), 72% (2018), e 63% (2022).

Che possiamo dire rispetto a questo? Senz’altro, in primo luogo, che durante questi ultimi quindici anni –dal 2008 in poi– diversi milioni di cittadini, per la precisione intorno agli 8 milioni, nati, cresciuti, ed educati alla fine del ventesimo secolo e nei primi anni del duemila hanno acquisito il diritto di voto. Nel contempo, coloro che tra chi era nato nel 1918 ancora era in vita, aveva già nel 2008 almeno novant’anni: ne erano dunque rimasti ben pochi in grado di esprimere il loro voto, e la maggior parte era mancata appunto tra gli anni ’80 e ’90.

Ma costoro al tempo delle grandi mobilitazioni popolari nei tempi della crisi del 1929 erano dei ragazzi e ragazze che vivevano con sgomento una realtà spietata di sopraffazione del più debole, e al tempo della seconda guerra e durante il dopoguerra erano giovani uomini e donne che vissero con la passione della speranza di una società e un mondo nuovi una esperienza indelebile che li accompagnò tutta la vita come coagulazione di un ideale nel quale la politica era il mezzo dell’affermazione e della garanzia dei diritti, dell’uguaglianza, e della libertà.

È naturale dunque che, non solo quella generazione, ma anche quelle degli anni trenta e quaranta, educate da questi, avessero una concezione sociale della politica come elemento dirimente nella determinazione dei destini di un cittadino, come appartenente ad un certo gruppo sociale, e si recassero sistematicamente alle urne in tutte le occasioni. Ma anche chi nacque in quegli anni, ’30 e ’40, oggigiorno ha come minimo 75 anni, e come massimo ben 94, e una percentuale crescente di costoro viene costantemente sostituita nel diritto di voto da individui che compiono 18 anni.

Chi ha votato nel 2022 tra i 18-24enni è nato al più presto nel 1998, ed ossia è stato allevato e condizionato nell’ambiente sociale dell’egemonia capitalista che proclamava la “fine della Storia” e trasferiva all’intero spettro della cultura materiale l’affermazione per cui “non vi è alternativa”, al tentativo di emergere come individui, imprenditori di se stessi, che come nel “sogno americano” raggiungono il “successo” (cioè il benessere e la felicità) sulla base esclusiva dei propri sforzi e delle proprie capacità e talenti.

Questo modo di vedere il mondo e il soggetto è la base esistenziale dell’esperienza individuale del valore e del senso del proprio esserci diffusa a tutti i livelli dell’educazione e della cultura nell’egemonia della classe dirigente capitalista liberale. Basti accendere un canale televisivo come Rai3 a qualsiasi ora del giorno per rendersene facilissimamente conto: non vi è programma che in un modo o nell’altro suggerisca che la soluzione per i problemi che affliggono la società e il mondo debbono provenire dall’iniziativa privata, collettiva o individuale, che valorizza il “territorio”, la “tradizione”, le “specialità”, di questo o quel luogo, costruendo una “start-up”, che porti lavoro e benessere diffuso nel rispetto dell’ambiente. E lo stesso mezzo di comunicazione non manca di fornire costantemente esempi del successo di individui che “si sono fatti da sé”.

Nella visione del mondo diffusa nella società italiana, e occidentale più in generale, oggi è l’imprenditore la figura che funge da modello catalizzatore delle aspirazioni delle masse, che ciascuno, grazie allo sviluppo sempre più prepotente dei più subdoli mezzi informatici può tentare di realizzare, rimanendo responsabile del proprio successo o fallimento: perché la società, in tale visione del mondo, non esiste, e lo Stato è un incomodo che reclamando l’esazione delle imposte sottrae le risorse necessarie alla realizzazione di tale successo.

E naturalmente questo condizionamento viene sempre più diffondendosi anche in coloro che, cresciuti in tempi “storici” ne erano rimasti relativamente immuni, e che aveva colpito la loro generazione in misura meno intensa, per chi invece era nato dagli anni ’50 in poi, sì che le prime avvisaglie di questa tendenza furono evidentemente i movimenti studenteschi degli anni ‘60 e l’immane operazione psicologica ad essi associata, insieme alla guerra ibrida condotta per mezzo della distribuzione di sostanze stupefacenti e orientalismo d’accatto.

Tutto ciò però non implica affatto che la crescita dell’astensione sia dovuta nella sua parte maggioritaria alla crescente consapevolezza da parte dei cittadini dell’inganno perpetrato ai loro danni dalle forze politiche o dalla UE, e anzi è semmai presumibile esattamente il contrario.

Di fronte alla mancanza di alternative, nella cui ottica si è stati cresciuti, e se non ci si è stati cresciuti, ci si è fatti convincere da quelle forze politiche che da sempre si erano pavoneggiate con tale alternativa (e dunque della prospettiva che l’azione comune nel campo della politica sia la strada obbligata per eguaglianza e libertà) ora trasformate in schietto ed onesto liberalismo, l’astensionismo appare essere espressione non di sfiducia, e nemmeno di disinteresse in senso stretto.

È piuttosto espressione della convinzione, spesso subconscia, che la politica non riguardi in senso stretto la propria esistenza individuale, che può essere racchiusa in una dimensione sanificata nella quale non accedano contenuti che possano mettere in discussione l’intuizione del mondo costruita durante quella educazione, e per la quale è sufficiente la narrazione mitologica delle istituzioni e degli eventi, orecchiata come “sentito dire”, per confermare in modo persistente le proprie convinzioni già consolidate.

Cosicché, finché il proprio “piccolo mondo”, il proprio giardino, dove in fondo, magari, uno è il “padrone”, non viene disturbato dalla politica, e le sue condizioni rimangono più o meno le medesime, non può sorgere nessun sentimento «sovversivo» nell’animo di costoro: si può dire pertanto che questo settore della società rappresenti l’area del conformismo, ed ossia di tutti coloro che per definizione si adeguano all’ordine costituito, quale che esso sia, fatto garante che la propria situazione individuale non cambi per il peggio in modo sensibile e/o immediato, anche, e forse soprattutto, qualora tale ordine subisca una trasformazione, e ad un certo sistema sovrastrutturale di istituzioni politiche e sociali ne succeda un altro, alternativo a quello precedente.

In questo senso una buona parte dell’astensionismo non solo è «privo di coscienza di classe», ma non ha proprio alcun contenuto politico: ci sono milioni di individui le cui relazioni sociali hanno un ambito di interessi e contatti così selezionato e ristretto a campi specifici, anche di altissima tecnica s’intenda, che magari nemmeno si rendono conto che sono state fissate delle consultazioni.

Nella misura in cui le moltitudini di possibili interessi e passioni legate agli oggetti e opere diffuse dal sistema di produzione capitalista, in tutti i campi, innanzitutto quello culturale –il cinema, la musica, la letteratura in tutte le sue manifestazioni, dal romanzo al fumetto, lo sport– possono essere raccolte da ciascuno in una o l’altra delle loro espressioni o generi e costruite come propria identità sociale, è possibile trovare una propria dimensione esistenziale, che richiede nulla più delle presenti condizioni di vita, in cui si può accedere ad una comunità nella quale si assume un ruolo, e si può diventare una personalità, per quanto limitatamente al circolo delle proprie conoscenze.

Si può formare un gruppo musicale, e cercare di ricreare le atmosfere suggestive e travolgenti dei successi o dei “capolavori” degli artisti d’oltreoceano o oltremanica; oppure cadere nella trappola del collezionismo, della smania di ottenere tutto quanto è disponibile sul mercato di un certo articolo, di lunghissime serie di nuove uscite e del reperimento delle antiquate prime edizioni delle più svariate pubblicazioni; oppure ancora coltivare gli interessi verso l’arte, il teatro, il cinema, frequentando mostre o festival, organizzando le proprie case con avanzati sistemi tecnologici di riproduzione, o dedicarsi, se stessi, a ciascuna di queste attività, come divertimento, dietro al quale fa sempre capolino l’aspirazione –la “speranza”, di cui parlava Harry Truman il 12 marzo 1947– che la propria determinazione, il proprio lavoro individuale, il proprio talento, siano sufficienti ad ottenere il successo che si è convinti di meritare; o praticare discipline psicologiche dell’Oriente mercificato, che insegnano la “gentilezza” come principio cardine della propria esistenza, e invitano a lasciare che tutto si svolga senza interferirvi.

Come un noto musicista del nostro Paese scrisse proprio al termine degli anni ‘70 del secolo scorso, si tratta dei “polli di allevamento” che sono “nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni”, che sui quotidiani più rinomati d’Italia si susseguono quasi quotidianamente, in questo o quel campo, sebbene poi, non cambi mai nulla.

In tutti questi casi la dimensione della politica esula completamente dall’orizzonte esistenziale di chi è avvinto nelle spire ideologiche di questo letale intrattenimento –il “divertiamoci a morte” di Neil Postman– e non è altro che una componente indistinta nella società, di cui non si conosce pressoché nulla, poiché il cerchio delle proprie relazioni sociali tende ad escludere la considerazione di qualsiasi informazione a riguardo: non è un caso che il sistema capitalista governato dall’impero statunitense abbia promosso con immensi sforzi economici e produttivi la diffusione sempre più capillare di queste tendenze individualiste, presentandole in modo sempre più pressante come strumento imprenditoriale per cui elevare la propria posizione sociale.

Un’altra parte di individui poi, senz’altro, può avere interessi politici, ma è convinta che votare è ininfluente, per una o per l’altra ragione, sicché tra questi si ritrovano le aree della cosiddetta “sinistra antagonista”, o le comunità dei centri sociali, ancora esse stesse una zona marginale di quella stessa dinamica del conformismo.

Questi movimenti infatti si riducono in sostanza a agglomerati informi di soggetti ideologicamente anarchici, che si considerano mediamente “migliori” della “gente”, disprezzata come “massa”, “gregge”, per un malinteso senso di solidarietà sociale i cui ricavi rimangono in larga misura nelle loro tasche; e l’anarchico, non intendendo sporcarsi col potere e sguazzando, in modo perfettamente adattato, nelle acque semi-stagnanti della disoccupazione del benestante di famiglia e dell’occupazione illegale di stabili pubblici, di cui si fa gran vanto, ma per cui contratta condizioni e sovvenzioni con le autorità comunali, è il primo dei conformisti, pur denigrando l’ordine costituito.

È questo stesso d’altronde che gli consente, gli lascia lo spazio, di formare la propria comunità di presunti “antagonisti” a quest’ordine, la cui unica attività tuttavia, oltre ad occasionali atti di vandalismo e al consumo non indifferente di alcolici, sostanze stupefacenti, e tabacco, cioè tutte merci prodotte, distribuite, e vendute, proprio da quei soggetti contro cui costoro vorrebbero essere “antagonisti”, è quella di attendere che, senza interferire, il sistema di cui si presentano come “denigratori” si consumi da se stesso, nella tipica attesa messianica del pensiero anarchico.

Un’altra parte ancora poi ricade senz’altro in quella auspicata da Giannini, come rifiuto e sfiducia nelle istituzioni europee e politiche in generale, frutto di una valutazione, più o meno accurata dei fatti disponibili alla riflessione, e manifesta dunque, quantomeno, un interesse generico verso le vicende politiche del Paese e dell’Unione Europea.

Ritengo dubbio tuttavia che questi siano più che una porzione largamente minoritaria dell’area dell’astensione, la quale vista la dinamica, anche generazionale, che essa presuppone, è plausibile essere formata nella sua parte maggioritaria da un ampio settore di conformismo, prodotto dall’orizzonte sociale fornito dall’egemonia culturale della classe dirigente, al quale nella mente non è presente alcuna alternativa: anche la Repubblica Popolare della Cina, per quanto denunciata come “feroce dittatura comunista”, persino secondo un eminente studioso, appunto di matrice politica anarchica, come Noam Chomsky, è percepita dalla stragrande maggioranza delle persone –non ultime quelle istruite, o che sono impiegate come docenti, ideologicamente di “sinistra”, nei sistemi di educazione pubblica– come un Paese che economicamente è capitalista.

Mi sembra dunque che, come ho letto nelle opinioni di altri analisti sulla questione, in questo caso vi sia una sopravvalutazione della diffusione nel corpo elettorale riguardo al «dubbio di massa e sovranazionale» sulla «bontà del progetto storico Ue». Questo rischia di fare valutare in modo irrealistico i rapporti di forza nella società, e il potenziale relativo di ciascuno dei suoi settori in direzione di atti politici che abbiano effettivamente un orientamento «sovversivo».

La questione naturalmente è direttamente collegata alla «lunga egemonia social-democratica europea» e alle condizioni di vita che hanno permesso la creazione di questo settore della società, sempre maggiormente sottomesso all’ideologia dominante. Per essa infatti, come ho già osservato, il motore della affermazione personale è l’individuo, e la dimensione del successo e del benessere è acquisire proprietà materiali.

E questa ideologia è stata imposta sui popoli europei, certo, ma ciò è stato possibile solo poiché a questi stessi popoli è stato consentito di avvantaggiarsi anch’essi del sistema neocoloniale, come settore globale di aristocrazia del lavoro, la cui stabilità fu dovuta, a mio parere, proprio alla progressiva trasformazione di quelle forze politiche dalla rappresentazione retorica delle aspirazioni massimaliste, alla realtà concreta degli obbiettivi riformisti. E cioè al pressoché completo abbandono, non appena ciò fu reso possibile, dopo il 1956, e poi, per chi ancora non aveva ceduto, dopo il 1968, del Marxismo-leninismo nell’abbraccio mortale con il Marxismo occidentale. Bisogna fare affermazioni forse spiacevoli certo, e dire:

“Signori europei, tutto il benessere e la ricchezza che si è accumulata nei vostri paesi, e che in molti di questi è conservata come i vostri risparmi, sono state create ed accumulate grazie al sistema neocoloniale di sfruttamento globale, al quale anche a voi è stato concesso di accedere.

“Ebbene, in quest’epoca, che sta succedendo? Sta succedendo questo: questi signori, i padroni, quelli per cui soli vale la democrazia nel liberalismo, ritengono, come hanno sempre ritenuto, che tutto ciò che vi è stato dato è in realtà di loro proprietà, e dunque, per non sprofondare, ve lo sta prendendo indietro.

“In realtà certo non è né loro, né vostro, ma in larga misura dei popoli del sud del Mondo. Ma i vostri padroni architettano per mezzo della loro presa sui mezzi di educazione ed istruzione e di informazione una narrazione per cui è necessario che si riprendano tutto ciò che vi era stato dato, perché c’è un cattivo che bisogna sconfiggere, pena la miseria, la distruzione, e la morte”.

E sicuramente i “padroni” hanno tutti i mezzi sufficienti ad infliggere ciascuno di questi in proporzioni inimmaginabili, laddove la popolazione manifesti contrarietà e dissenso verso l’unica alternativa fornita, combattere il “cattivo” e remunerare i “condottieri” che permettono tale lotta di tutto il valore che, secondo la struttura dell’azionariato monopolistico finanziario, spetta loro.

Vorrei infine esprimere il mio punto di vista sulla questione centrale nell’articolo da cui ho preso spunto per queste osservazioni, ed ossia la “rivoluzione” naturalmente, e la sua “necessità” nelle condizioni materiali e nella situazione concreta di questi anni.

Non so quanto una mia disanima possa contribuire a chiarire tale questione di importanza cruciale, anche perché, lo confesso, non ho una storia individuale di attivismo, o militanza politica; non sono un “rivoluzionario di professione”, né sono mai stato iscritto ad alcun partito politico: molto tempo fa, non ero che uno degli individui che si acquietavano la coscienza nel conformismo –per cui non è sentito dire quanto riferito sopra– e in seguito divenni uno studioso, un ricercatore di fatti storici e concezioni filosofiche, in un percorso che mi ha condotto, attraverso lo studio della filosofia orientale e del fondamentale lavoro di Immanuel Kant, di Aristotele, e di Nagarjuna, al materialismo dialettico e al marxismo-leninismo. Cercherò comunque di offrire qualche riflessione che, per quanto superficiale ed incompleta, fornisca una prospettiva realistica sulla questione.

È evidente d’altronde che una rivoluzione sarebbe senz’altro necessaria. Possiamo facilmente riconoscere come le condizioni di vita nelle società capitaliste in Europa occidentale stiano subendo una trasformazione radicale, nella direzione dell’abbandono pressoché completo del sistema dello “stato sociale” e nella più selvaggia liberalizzazione e deregolamentazione delle procedure di infiltrazione finanziaria in tutti i settori delle attività produttive del Paese: dalla sanità, all’approvvigionamento delle materie prime, ai servizi, alla gestione delle infrastrutture strategiche.

Ma questa, tuttavia, non è che una necessità che si può dire “logica”: possiamo concludere, con necessità, sulla base di elementi empirici convalidati che se la situazione non cambia, cioè se non ci sarà una rivoluzione, le condizioni materiali di vita saranno sempre più soggette agli arbitri della classe dirigente, e il processo di produzione capitalista provocherà una alterazione irreversibile delle condizioni climatiche planetarie.

Giannini tuttavia si riferisce a ben altra “necessità”, che invece è “storica”, non “logica”, ed ossia si interroga sulle condizioni materiali concrete che nel loro insieme producano necessariamente una rivoluzione, e dunque ricorda giustamente i «“3 elementi” che Lenin indicava per rendere verosimile una situazione rivoluzionaria», oltre ad osservare che «il crollo dell’Ue [è] una forte eventualità storica, una liberazione per i popoli che tuttavia l’azione soggettiva dei comunisti e dei rivoluzionari deve accelerare».

Domandiamoci allora se ci troviamo nella situazione per cui «coloro che stanno in alto non possano più vivere come per l’innanzi», e consideriamo quanto appena osservato nelle franche parole metaforicamente rivolte ai “signori europei”.

Che vuol dire infatti, che non possono più vivere come per l’innanzi? Che il sistema di sfruttamento dell’economia nel processo di produzione capitalista non è più in grado di fornire le condizioni sufficienti per perpetuare sé stesso, e continuare a convogliare verso l’alto il plusvalore con cui le classi dirigenti pagano per mantenere le proprie condizioni di vita privilegiate, vale a dire che il sistema intero vada incontro ad una profonda crisi dalla quale non è in grado di rialzarsi. Siamo in effetti di fronte ad una tale situazione, e la crisi del sistema economico capitalista si prospetta tale da infliggere un colpo di forza tale da tramortire l’intera struttura della produzione e del consumo in Occidente?

Non volendomi affatto dilungare mi limiterò a fare alcune osservazioni su basi puramente empiriche, richiamando appunto quanto scritto poco fa. Come d’altronde afferma anche Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea a Pisa, in un’intervista rilasciata al “Fatto Quotidiano” il 6 agosto u.s. quanto si sta verificando in questa fase della dinamica globale dell’economia capitalista in regime di monopolio finanziario non è altro che «il drenaggio di risparmio planetario verso il debito pubblico Usa», allo scopo di placare la «gran fame di prestiti» degli Stati Uniti.

Soggetti monopolisti come «Vanguard, Blackrock, State Street» che gestiscono decine di migliaia di miliardi di dollari in attività strategiche distribuite su tutto il pianeta, entrano nell’azionariato delle principali società e industrie di tutti i Paesi soggetti al dominio imperiale statunitense, che si tratti di semicolonie, come l’Italia, o Paesi (neo)coloniali, come quelli africani e del Sud America, dai quali in questo modo estraggono sempre maggiore plusvalore, ivi contenuto nella forma di risparmi –e dunque incidendo innanzitutto sui Paesi maggiormente sviluppati economicamente, mentre per quelli meno sviluppati la penetrazione finanziaria monopolistica è necessaria per controllare non solo il commercio dei prodotti finiti nell’Occidente capitalista, ma anche quello delle materie prime– con i quali poi acquistano debito pubblico del Tesoro Usa, oppure sostengono le quotazioni delle aziende presenti nei listini di borsa a Wall Street.

In questo modo stanno fornendo costantemente la liquidità necessaria a coprire i pagamenti trimestrali degli interessi sui debiti contratti per l’espansione di attività e l’acquisto di materiali, in settori produttivi la cui consistenza in termini di “assets” concreti è assai limitata, cioè quelli dell’alta tecnologia e dell’IA –che dunque non offrono garanzie effettive che la loro reale dimensione economica corrisponda alla capitalizzazione che hanno in borsa– poiché per questa stessa ragione, l’incertezza riguardo alla «capacità di queste aziende di essere davvero innovative» e dunque ampliare sempre più il proprio mercato fornendo i dividendi che gli azionisti si aspettano, sono ben consapevoli che «la bolla hi-tech rischia di esplodere» in ragione dei presenti «elementi di incertezza macroeconomica, geopolitica, e finanziaria».

Nelle «forti oscillazioni» che il prof. Volpi ritiene possibili nei prossimi mesi, con l’avvicinamento alle elezioni presidenziali USA, comunque a suo parere «l’Eurozona sarà protetta dai tassi alti della Bce», per quanto egli, dal suo punto di vista chiaramente “liberale”, appare ritenere che la «dinamica dell’inflazione» e la «necessità di drenare risparmio» siano due fattori autonomi uno dall’altro rispetto alla «mancata riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve».

Ma in effetti, siccome il sistema economico è dominato da pochi soggetti che agiscono in regime di monopolio, e quest’ultimo è per definizione quel regime in cui il produttore può decidere arbitrariamente il prezzo della merce, è chiaro che quella dinamica ha una stretta relazione con il «drenaggio di risparmio planetario», poiché il risparmio è plusvalore in forma monetaria che non va in investimenti ma in spesa, e tale spesa cresce con l’aumento dei prezzi, che risulta perciò in sostanza una forma di regolazione della magnitudo di quel drenaggio.

Non si può che concludere allora che fino a quando quest’ultimo potrà continuare il sistema economico non incontrerà una crisi catastrofica, e potrà continuare fino a che vi sarà sufficiente risparmio da drenare. In una certa misura pertanto le istituzioni statali e governative hanno anche il compito di assicurare che il livello della spesa, dei “consumi”, dal punto di vista contabile, si mantenga tale da potere sostenere questa dinamica.

In questo modo, a mio parere, le classi dirigenti riescono ad impedire esattamente «l’acutizzarsi oltre il normale dei bisogni e delle difficoltà delle classi oppresse», stravolgendo gradualmente il loro modo di vivere e le loro abitudini, per uniformarle al consumo standardizzato di merci industriali prodotte su larghissima scala, e in questo modo pongono le condizioni per cui possano continuare a «vivere come per l’innanzi»: una dinamica che ha avuto un immenso successo, a partire dagli anni ‘70, con la distruzione del sistema di Bretton Woods, la sospensione della convertibilità del dollaro USA in oro, e la sempre più tentacolare finanziarizzazione dell’economia intera, che ha prodotto un distacco sempre più marcato tra remunerazione del capitale e crescita relativa dei salari.

A questo proposito, lo scorso anno è stato rilevato come la povertà assoluta in Italia fosse arrivata a colpire circa il 10% della popolazione. Ma tutti costoro, da una parte, possono ancora accedere ad una piccola strumentazione di sussidi e sostegni statali, e dall’altra parte, riescono a mantenersi grazie alla prestazione di lavoro irregolare, o di commerci di sostanze illecite, o merci di contrabbando, o sulle basi di una piccola economia di sussistenza, nelle zone più rurali del Paese.

La stragrande maggioranza della popolazione dunque mantiene un livello di condizioni di vita che, quantitativamente, non ha visto un peggioramento sensibile, o significativo, rispetto a prima, per quanto qualitativamente vi possa essere stato un profondo decadimento delle merci consumate e dei mezzi di sussistenza: tutti quindi, tranne una deviazione standard marginale che è tenuta in conto, hanno la possibilità di mantenersi nella condizione di lavorare, e, in molti casi, anche quella di concedersi piccoli lussi e proprietà a titolo personale, come veicoli, immobili, natanti.

Perlopiù le popolazioni europee non patiscono la fame, e chiunque può mettere in tavola alimenti sufficienti ogni giorno, tre volte al giorno, per quanto questi alimenti possano essere sempre più scadenti, a costo sempre minore, e con valori nutrizionali sempre più squilibrati, come nel cosiddetto “junk food”, “cibo spazzatura”, non a caso modello commerciale iconico della “cultura” statunitense.

E la vera e propria piaga dell’obesità, negli USA, colpisce evidentemente proprio quei soggetti che fanno parte delle classi meno agiate del Paese, e che sono ridotti a nutrirsi di prodotti ultra-processati, addizionati di grassi saturi e zuccheri in proporzioni che non è inesatto definire tossiche, ma che forniscono, ad un costo di produzione estremamente basso, una quantità di calorie decisamente superiore alla media richiesta per un adulto in salute.

Negli USA stessi d’altronde la situazione è terrificante, e la povertà dilaga. Come informava “Il Fatto quotidiano” il 19 luglio u.s. i senzatetto sono «100mila soltanto nella città di New York, 30mila dei quali bambini», epperò tali condizioni, che non sono nuove ma si stanno esacerbando per «livelli di emarginazione sociale e povertà [che] crescono esponenzialmente», non sembrano ancora essere sufficienti a scalfire minimamente la presa dell’ideologia “eccezionalista” e dell’imperativo capitalista nella popolazione statunitense, di qualsiasi ceto, o classe. Riguardo a New York d’altronde, per quanto il dato numerico possa risultare impressionante, nella condizione di senzatetto si trova solamente circa lo 0,5% dei residenti totali dell’area metropolitana di New York City, che si raccoglie spesso in zone delimitate dell’abitato in sorta di ghetti della disperazione più nera, in cui imperversano prostituzione e tossicodipendenza.

Addirittura, recentemente è stato fondato su posizioni che vogliono richiamarsi al “multipolarismo” e al Marxismo-leninismo, in contrapposizione al revisionismo del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, un partito che è stato chiamato “American Communist Party”, in una espressione che in un solo fiato dice dottrina Monroe. Lodevole iniziativa, certo, che però risente evidentemente di una profonda distorsione prospettica sulla funzione degli USA nel continente e nel mondo. Oggi, più che mai, sarebbe forse di buon auspicio ricreare una nuova versione autorevole, coesa, e armoniosa di un organo internazionale dei comunisti di tutti i Paesi.

D’altro canto così diventa evidente che il processo oggi in corso di “terzo-mondizzazione” dell’Europa occidentale, o meglio, “americanizzazione”, cioè completa assimilazione dei territori interni alla metropoli imperiale ai costumi, alle leggi, e alle priorità degli Stati Uniti, per completare l’integrazione tra i sistemi economici che l’articolo 2 del Trattato Atlantico pone come obiettivo principale dell’alleanza, punta a stabilire una situazione esattamente paragonabile a quella vigente oltreatlantico, sul livello della desertificazione dello stato sociale e dei benefici dei contratti collettivi di lavoro, mettendo il controllo completo dell’economia nelle mani di pochi mega-investitori globali che dominano i flussi monetari e commerciali principali nella dinamica monopolistica del capitale finanziario transnazionale.

In Liguria il dimissionario Presidente della Regione Giovanni Toti e il sindaco di Genova Marco Bucci, confidavano di fare del capoluogo ligure una San Francisco del Mediterraneo: nella città di San Francisco, in California, risiedono poco più di 800,000 abitanti, circa 17,000 dei quali, nel 2022, erano senzatetto.

I due prodi untori delle ruote dell’imprenditoria globale con sede nel porto genovese –in particolare quella dominata dalla figura di Gianluigi Aponte, la vera eminenza grigia della città ligure, proprietario del primo gruppo al mondo di logistica globale in trasporto container, recentemente protagonista di un imponente ordine di centinaia di milioni di dollari per nuove mega-navi portacontainer con la finalità di espandere ancora ulteriormente la sua flotta e conquistare nuove quote di mercato, oltre al 20% mondiale che già detiene– dunque ambiscono (o ambivano, viste le note vicende) forse a far crescere la popolazione di senzatetto di Genova dai circa 3,000 attuali a oltre 12,000, tendenza che la trasformazione forzata dell’economia ligure verso la predominanza del “turismo 365 giorni all’anno” e dunque la sempre più accentuata proliferazione di “proprietari” di casa assenti che lucrano sugli affitti brevi e l’inevitabile crescita del lavoro nero, precario, non qualificato, sottopagato, che a tale trasformazione conseguirà, evidentemente non può che accentuare.

Nel frattempo così si moltiplicano in città i punti vendita di gigantesche catene della grande distribuzione alimentare e di abbigliamento, mentre proliferano ristoranti, locali, e negozi di piccola o micro entità i cui prezzi sono proibitivi per i redditi della maggior parte dei residenti, ma possono essere pagati dalle masse di turisti che la macchina della promozione commerciale del territorio da “valorizzare” intende attrarre con la “riqualificazione” e l’offerta culturale del “centro storico più grande d’Europa”.

Bisogna fare molta attenzione pertanto alle dinamiche che hanno condotto gli Stati Uniti d’America alla presente condizione di completa disgregazione del tessuto sociale, con un aumento vertiginoso della concentrazione della ricchezza e del capitale a scapito del benessere, delle concrete possibilità di vita, e di miglioramento della propria posizione sociale della stragrande maggioranza degli individui, soggetta all’azione della spietata macchina da combattimento posta in essere come strumento di assalto costante e ad ampio spettro da parte dei reparti speciali delle Operazioni Psicologiche degli eserciti NATO, nella incessante guerra ibrida condotta contro le popolazioni dei Paesi occidentali, poiché esse, con il declino produttivo delle economie delle metropoli imperiali, sono in corso di applicazione a tutta la sfera dei Paesi “atlantici”.

L’assalto neoliberista alle economie protette dell’Europa occidentale, salvaguardate da limitate regolamentazioni del capitale e da ampi settori di economia mista che consentivano l’implementazione di una misura per quanto carente di “stato sociale”, è avvenuto proprio quando le classi dirigenti capitaliste, raggiunto lo scopo di obliterare ideologicamente l’alternativa rappresentata –per quanto sempre più come caricatura di se stessa– dall’Unione Sovietica, hanno avuto la sensazione di avere mano libera nel perseguire i propri disegni di accumulazione di capitale e di colonizzazione del mondo intero sotto il dominio dell’Occidente anglosassone ed europeo, cioè bianco.

Come sappiamo poi, le rivoluzioni che nella Storia hanno avuto successo, innanzitutto quella dell’Ottobre 1917 e della Cina nel 1949, si sono sviluppate alla fine di grandi conflitti armati che crearono un vuoto di potere in quei Paesi nel quali i comunisti si inserirono con successo in modo efficace e credibile. Ugualmente nella penisola di Corea, a Cuba, in Laos e in Vietnam, le rivoluzioni che hanno instaurato regimi guidati da partiti comunisti con elementi più o meno pronunciati di economia socialista hanno tutte visto questi partiti alla guida di insurrezioni armate e guerra aperta contro il nemico di classe, l’invasore straniero, o l’ex padrone coloniale. Tutto ciò presupponeva entrambi i due primi elementi di cui parla Lenin.

Pare assolutamente evidente che oggi non ci troviamo affatto, in particolare nell’Occidente capitalista, in una situazione analoga: non siamo alla fine di uno conflitto armato di grandi proporzioni –e semmai ci troviamo all’inizio di un possibile tale scontro– né esiste, strettamente parlando, un vuoto di potere dal punto di vista politico e istituzionale, né d’altronde nella popolazione sono presenti individui con una preparazione militare sufficiente e adeguata per intraprendere azioni insurrezionali su larga scala, quand’anche vi fosse, e non vi è, la possibilità di organizzare una tale serie di strutture effettivamente “sovversive”.

Nemmeno poi ritengo plausibile, per quanto osservato sopra, ritenere che tra i milioni di cittadini italiani ve ne siano oggi più che qualche migliaio disposti a mettere a rischio il proprio benessere, la propria tranquillità, forse addirittura la propria vita, per produrre un cambiamento radicale nella società e nello Stato.

Queste condizioni infatti sono prodotte appunto, come sostiene Lenin, da quei primi elementi, come terza componente che rende “necessaria” la rivoluzione, cioè «un aumento […] dell’attività delle masse le quali […] sono sospinte a un proprio autonomo intervento», sul quale i comunisti possono promuovere la propria politica, ingrossando le proprie fila e accumulando l’inerzia nella direzione del rovesciamento dell’ordine costituito, il quale avendo perso la possibilità di andare avanti «come per l’innanzi» si sfalda da sé, come una barca che affonda. Solo quando i «bisogni» e le «difficoltà delle classi oppresse» si acutizzano in modo da incidere significativamente sulle loro aspettative di vita, gli appartenenti a tali classi saranno disponibili a prendere quei rischi che mettono in discussione la loro stessa vita.

Ma senz’altro ugualmente i comunisti debbono avere compiuto un lavoro capillare ed efficace perché possano cogliere l’occasione di rintracciare il corso dei «flussi carsici» del processo storico e porsi alla testa e ai fianchi del movimento che scaturisce da quelle condizioni, ed ossia debbono avere una presenza concreta e diffusa su tutto il territorio nazionale, con legami forti e consolidati con i settori più rivoluzionari della società. Anche in questo caso, non possiamo che riconoscere che anche questa condizione non è per nulla soddisfatta nella presente situazione concreta.

Ma il mio non intende essere disfattismo. Vi è infatti un aspetto della rivoluzione che caratterizza tale evento in modo univoco e materiale, a prescindere dalla modalità con cui essa si sia realizzata, e che riguarda l’essenza stessa della rivoluzione, ed ossia la trasformazione radicale delle sovrastrutture politiche e della forma istituzionale dello Stato, attraverso la quale si può concretamente imprimere un vero moto di rinnovamento nell’intera società.

Quale che sia il mezzo per cui si raggiunge l’obiettivo del rovesciamento dell’ordine costituito –vuoto di potere, guerriglia, guerra di liberazione nazionale, perché lo “stato borghese lo si abbatte, non lo si riforma”– ciò in cui si concreta il movimento rivoluzionario è appunto la sostituzione di questo ordine con un altro, e pertanto si enuclea in primo luogo nella caduta di tutti gli usi e costumi, e cioè delle leggi, del regime precedente, a partire dalla legge fondamentale dello Stato precedente: la Costituzione.

È dopotutto proprio attraverso la riscrittura da capo della Costituzione che in uno Stato come il Venezuela il Partito Socialista Bolivariano è stato in grado di trasformare in modo radicale il Paese, dando respiro e fiducia a tutto il movimento rivoluzionario e socialista nel continente sudamericano, senza avere dovuto ricorrere all’uso delle armi o della violenza –e anzi avendola ripetutamente subita– epperò allo stesso tempo senza essere minimamente intaccati dalle sordide dinamiche del riformismo e dell’opportunismo, poiché il carattere dello Stato, e dunque l’ordine costituito, dipende dalla Costituzione vigente in un certo Paese, non dalle leggi che a partire da questa come fondamentale vengono emanate dagli organi legislativi, cosicché l’abrogazione di una Costituzione e l’implementazione di una nuova evidentemente riflettono una dinamica rivoluzionaria, e non riformista, che intende sempre e solamente emendare le leggi vigenti, senza intaccare minimamente quelle disposizioni che definiscono i rapporti sociali di produzione e le prerogative di ciascuna delle classi che compongono l’intera società.

Dunque, analogamente all’esempio visto in Sud America, l’aggregazione di un ampio polo di forze politiche e di quei movimenti di massa che sporadicamente si infiammano per esaurirsi rapidamente nelle società occidentali, che si dica senz’altro patriottico –in quanto la questione è oggi innanzitutto quella dell’indipendenza e dell’unità e della cultura nazionale, e che per i comunisti è inevitabilmente legata alla prospettiva di una patria socialista, eventualmente in una comunità di Stati socialisti indipendenti che autonomamente scelgono di unirsi in una singola federazione– può rappresentare un primo passo nella preparazione di una piattaforma politica che sottolinei in prima istanza l’insufficienza e la natura classista della presente Costituzione del Paese e ne illumini e chiarisca le condizioni della stesura, dal punto di vista politico, sociale, storico, ed economico, sfatando il vero e proprio mito che avvolge tali vicende, presentate alla pubblica opinione nella trasfigurazione agiografica del processo costituente e delle relazioni tra le forze politiche che ne furono protagoniste, direttamente collegate alle ingerenze del potere imperiale statunitense e alla condizione di Stato semicoloniale dell’Italia, allora in corso di consolidamento.

Se la rivoluzione è sicuramente necessaria pertanto, ritengo che la necessità della rivoluzione vada ancora in larga misura costruita, e che non sia probabile un tracollo del sistema produttivo e sociale in Europa occidentale in tempi prevedibili: tutt’al più si verrà “americanizzando” sempre più, ma questo, come abbiamo testimoniato negli ultimi trent’anni, anche e forse soprattutto per le incessanti operazioni psicologiche, che attraverso lo strumento dei social network e di forum come Reddit o 4chan hanno un potenziale di diffusione e radicamento immensi, non è per nulla sufficiente a produrre concretamente i «3 elementi» di cui parla Lenin.

Dove non vi sono le condizioni per la rivoluzione però, si possono almeno creare le condizioni per promuovere la prospettiva concreta di una rivoluzione che è necessaria, e di queste condizioni si può forse preliminarmente preparare il terreno dichiarando pubblicamente, dopo una attenta considerazione delle iniziative da prendere, e una precisa visione dei caratteri generali e delle disposizioni principali da definire, la necessità della rivoluzione nella forma dell’adozione di una nuova Costituzione, per la costruzione di un nuovo Stato nella cornice del centralismo democratico.

Mi sembra, questo, un punto cardine intorno a cui elaborare la strategia per raggiungere i due «obiettivi centrali» di cui parla Giannini, ed ossia rilanciare «la piena autonomia statuale e politica di ogni paese dell’Ue, rimettendo a valore la concezione anticolonialista e rivoluzionaria dello Stato-nazione come mezzo principale per l’uscita dall’Ue e dall’euro», nel contempo necessariamente, dando corpo concreto ad «un progetto strategico di ricollocazione geopolitica del paese in cui si lotta (per noi l’Italia)».

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