Là dove fischia il vento. Per un discorso non retorico sul romanzo di Nicola Favaro

Per un discorso non retorico sul romanzo di Nicola Favaro (“En semble” editori), su di un’opera prima che ha il coraggio di parlare di nuovo di rivoluzione, di cercarne i soggetti, mettendo a fuoco tre diverse generazioni rivoluzionarie

Di Fosco Giannini

Nicola Favaro

Presentiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori Là dove fischia il vento, romanzo di Nicola Favaro, “En semble” editori, 441 pagine, 18 euro prezzo di copertina. Dal primo risvolto di copertina traiamo una, breve, biografia dell’Autore: “Nicola Favaro vive a Torino e lavora da sempre con le parole. È stato giornalista, ha scritto per il teatro e ha esposto i suoi racconti in una mostra: da dieci anni si occupa di comunicazione. Là dove fischia il vento è il suo primo romanzo”. Poiché questa nota ha lo stesso stile asciutto, restio ad enfatizzare, che contraddistingue il testo, la struttura semantica del romanzo, azzardiamo l’ipotesi che essa sia opera, stringata, dello stesso Autore.

copertina del libro

A testimonianza di tutto ciò, già ci colpisce, a pagina 45 del romanzo, una sorta di citazione letteraria, e “guida alla lettura”, onestissima e dunque dal carattere meritoriamente e culturalmente antiprovinciale. Sappiamo come i primi romanzi “gialli” alla Agatha Christie si svolgano tutti, e in gran parte, in “spazi chiusi” (ville, castelli, treni) e che sarà poi la grande letteratura “gialla” e “noir” nordamericana degli anni ’30 e ’50 (soprattutto quella di Raymond Chandler e dello scrittore comunista ferocemente perseguitato dal “maccartismo”, Dashiell Hammet) a “portare fuori”, nei quartieri sottoproletari, nelle strade, nelle palestre di boxe, nella Little Italy di Chicago, l’azione e la storia del “giallo”. Ebbene, poiché la primissima parte del romanzo si svolge in spazi chiusi all’Agatha Christie (e cioè nella palazzina dove vivono, senza conoscersi, i tre futuri protagonisti della storia e nella quale avviene la scomparsa del padre di uno dei protagonisti) e solo dalle pagine 50 in poi l’azione si sposta all’esterno, Favaro, con un piccolo ma magistrale colpo d’ala, riesce ad annunciare il passaggio della storia verso l’esterno della palazzina citando, in un contesto funzionale e non gratuito, proprio Raymond Chandler. Un piccolo cameo.

La successione dei fatti e dei nuovi fatti, l’entrata in campo di nuovi personaggi, i colpi di scena, i cosiddetti “plot twist”, la vasta estensione dell’ambito territoriale ove la storia si dipana, le diverse “temperature” degli stati d’animo dei personaggi, che oscillano tra la felicità e la disperazione, la stessa inclinazione, da parte dell’Autore, ad “universalizzare” il senso delle introspezioni dei personaggi e delle discussioni tra i personaggi, spesso inclini all’autoanalisi e al fitto rapporto dialogico con gli altri di tipo  “filosofico”, “ontologico” e anche personale, ma di quel “personale politico” come lezione estrema del maggio francese e del ’68 italiano: tutto ciò potrebbe deporre a favore di una struttura narrativa tipica del “feuilletton”, del romanzo popolare, anche se, in ultima istanza, ciò è evitato – anche se qualcosa del “feuilletton” rimane (intertestualità, appunto)- dal polso fermo e razionale dell’Autore, che, infine, mai deborda da una letteratura dell’antiretorica, della “sobrietà” linguistica, che non ha bisogno di “effetti speciali”, di colpi bassi, di attrazioni circensi alla Tim Barton per produrre nel lettore e, ancor prima, nell’opera stessa, coinvolgimento, fascinazione, partecipazione, “entrata” nella storia.

Tra gli elementi salienti della struttura linguistica del romanzo vi è quello di un tessuto narrativo -appunto- scarnificato, essenziale, sovraordinato, con poche digressioni ed autocompiacimenti, pochi aggettivi, un linguaggio rievocante quello “desertificato” de Lo straniero di Albert Camus, ma ciò-altro “straniamento”, altro “gioco” letterario dall’esito estremamente positivo, consapevolmente voluto o non voluto poco importa – entro un edificio letterario che rimanda piuttosto a I tre moschettieri di Alexander Dumas che a  Camus. Come dire: l’estrema contemporaneità della secchezza linguistica entro una struttura quasi da romanzo dell’800.

Ma, poi, vi è la storia. Cosa ci racconta Nicola Favaro?

Proprio perché l’impalcatura è ottocentesca e molti personaggi (che pur inseriti in una macchina letteraria alla Dumas o alla Victor Hugo riescono ad incarnare miracolosamente e perfettamente gli “idealtipi” alla Max Weber, “idealtipi” del passato più lontano, del passato più recente e del nostro presente che si muovono su di un fondale che dalle periferie di Torino si allarga sino al Marocco passando per Parigi) rinunciamo a priori, lasciando il gusto dell’avventura ai lettori e alle lettrici del romanzo, a rievocare tutta la storia e tutti i suoi attori, mettendo a fuoco invece i personaggi principali e il cuore stesso (narrativo e politico-teorico, e ci esprimiamo così perché il senso stesso del romanzo ed il suo linguaggio ce lo permettono, ce lo suggeriscono e lo vogliono) dell’opera di Favaro.

Si può (si deve) arrivare alla messa a fuoco dei personaggi centrali e del loro “senso”, narrativo e politico-teorico (sì, di nuovo, anche se di questi tempi di letteratura languida o stucchevolmente finto-perversa, “di rottura”, -senza aggiungere, per non cadere nella volgarità più scontata, “rottura”di che cosa-il fonema sintattico “politico-teorico” può fare quello stesso effetto, a tanti, che il luciferino fonema sintattico “marxista-leninista” può fare ad un consigliere comunale del PD dell’Emilia-Romagna), si può arrivare all’essenza del romanzo attraverso il restringimento dell’occhio di bue luminoso su Amedeo, Luca e Giorgio.

Chi sono? Sono i tre personaggi-chiave del romanzo di Favaro che, insieme, rappresentano la smisurata ambizione dell’Autore che, sulle tracce, consapevolmente o meno, del giudizio di  György Lukács su Honoré de Balzac, considerato dal grande filosofo dell’Ontologia dell’Essere Sociale il più grande rievocatore della realtà carsica, e cioè (ed ecco un altro, volens-nolens, retaggio dell’intertestualità) ha come obiettivo- altamente difficile ma, diciamolo subito e senza sgradevoli “tatticismi”, in buona parte riuscito – quello di rievocare, proprio attraverso le vite, gli ideali, le sconfitte (tante) e le poche vittorie e felicità di Amedeo, Luca e Giorgio, addirittura tre fasi della nostra storia recente: la fase contrassegnata dalla grandezza, potenzialmente rivoluzionaria ma, infine, arrendevole e organica al sistema, del Pci storico; quella rappresentata dalle grandi lotte No Tav iniziate nei primi anni ’90 in Val di Susa (Torino) contro la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, con tutto il suo portato di lotta generale che la No Tav ha recato e reca in sé,  e quella -odierna- delle lotte in difesa dell’ambiente e per un mondo non genuflesso ai riti pagani e servili della mercificazione e del consumo.

Balzac, abbiamo evocato, e tanto ci piacerebbe sapere, anche nell’economia di questa recensione, se Nicola Favaro abbia amato o ami l’autore, dal talento smisurato e dall’immensa qualità della preveggenza sociale, di Papà Goriot o di Illusioni perdute, e rivolgiamo a noi stessi questa domanda perché in Favaro, come in Balzac (ma nessuno si monti la testa, e nessuno, sappiamo, se la monterà…) la realtà sotterranea, carsica, è portata alla luce come l’aratro porta in superfice la terra nascosta, come azione primaria per poi, di nuovo, seminare.

Chi sono, che fasi rappresentano Amedeo, Luca e Giorgio?

Essi sono, intanto, tre inquilini di una stessa palazzina alla periferia di Torino i quali, come succede sempre nella vita quotidiana di tutti noi, pur vivendo a pochi metri, a poche scale di distanza l’uno dall’altro, non si conoscono e iniziano ad “annusarsi” solo dopo che il padre di Giorgio scompare e i tre si uniscono nella sua ricerca (intertestualità: ombre di Arthur Conan Doyle? Bagliori di Italo Calvino?)

Il frequentarsi, per i tre, rappresenta quella figura retorica del disvelamento di sé stessi e dell’altro che tanto segna di sé la natura stilistica del “feuilleton”, ed è all’interno della rete dialogica che viene tessuta tra i tre che ognuno di essi, con la propria storia e con la propria fase politica di appartenenza, viene presentato dall’Autore, quasi come a teatro, al pubblico, al lettore.

Amedeo, il più anziano dei tre protagonisti (circa 70 anni), è un ex dirigente del Pci storico, un comunista che ha sinceramente creduto, dal secondo dopoguerra agli anni della crescita politica ed elettorale del Pci, alla possibilità della rivoluzione e per questa suo convincimento (questa sua “fede laica e materialista”) si è sacrificato per il partito. Di che natura è stato il sacrificio? Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 Amedeo svolge per il Pci un ruolo delicatissimo: “sposta” e “nasconde” le ingenti risorse economiche provenienti dall’Urss per il Pci in una Banca d’oltralpe, al fine di congelare una ricchezza che doveva poi essere usata, dal Pci (crede Amedeo) nella fase della rottura rivoluzionaria. Rottura che non avviene mai e che viene invece sostituita dall’involuzione del Pci, dal suo cambiamento di natura ideologica, dalla mutazione del proprio nome, dalla sua stessa scomparsa storica. Pur non arrivando a trovare la banca ove i soldi per la rivoluzione sono depositati, la Legge giunge tuttavia ad indagare sull’intero gruppo dirigente del Pci in relazione agli aiuti sovietici. Ed è qui che Amedeo rinnova nella prassi, attraverso la propria pratica politica personale, l’eroismo dei comunisti rivoluzionari, della Terza Internazionale, dell’Ottobre, della Guerra di Spagna, della lotta partigiana: scagiona l’intero gruppo dirigente del Pci assumendo sulle proprie spalle l’intera responsabilità della gestione degli aiuti sovietici. Amedeo salva il Pci, il suo gruppo dirigente e, soprattutto, salva dentro di sé l’idea mitica e rivoluzionaria di quel partito. E attraverso la rivelazione e il racconto di sé, riconquista il rapporto, usurato, con la figlia Giovanna, anch’essa, come si scoprirà, possibile militante della nuova rivoluzione.

Amedeo farà la galera, ma quando uscirà, di fronte alla scomparsa del Pci, avrà il problema, vissuto soprattutto nella sua declinazione etica e ideologica, di cosa farne della ricchezza ancora depositata e celata in banca. Cosa rappresenta, dunque, Amedeo se non il sogno della rivoluzione che mai si è spenta nei rivoluzionari di quella, gloriosa, fase storica italiana che va dalla Liberazione, dal sogno insurrezionale del “vento del nord” sino all’interpretazione (ma questa è una nostra nota, che non compare nel romanzo di Favaro)in senso rivoluzionario della concezione “togliattiana” della “forzatura delle compatibilità capitalistiche”, che non cancellava, anzi rafforzava, attraverso la marcia  sempre più trionfante del Pci all’interno delle istituzioni parlamentari democratico-borghesi, il progetto della rottura rivoluzionaria? Una “forzatura delle compatibilità capitalistiche”, tuttavia, trasformatasi nel tempo e nella prassi del Pci in una sussunzione in quelle compatibilità.

Chi è invece Luca? Luca è un quarantenne, è stato un militante e un dirigente delle lotte, in Val di Susa, contro l’Alta Velocità. Non è un comunista conseguente, un rivoluzionario organico e dotato di coscienza marxista e leninista come Amedeo, ma anche in Luca, seppur dentro una condizione esistenziale fiaccata e certo non bolscevica (tratti della sua generazione?) i bagliori della rivoluzione sembrano, seppur con una ben minore densità ideologica rispetto al leninista Amedeo, uscire dal cerchio ristretto della lotta contro la Tav per farsi (certo, a fatica) “concezione del mondo e della totalità”.

Come Amedeo incarna in sé il sogno rivoluzionario che va dall’Ottobre di Lenin sino a tutto il processo di popolarizzazione del Pci, Luca incarna (perfettamente, sul piano letterario, nel senso che siamo di fronte, con Luca, ad un uomo con molte meno certezze di quelle che irrobustivano le generazioni rivoluzionarie precedenti  e con molti più “dolori da giovane Werther”) la fase delle lotte sociali d’avanguardia che vanno dalla scomparsa del Pci sino, a grandi linee, al primo decennio degli anni 2.000 (la lotta in Val di Susa inizia nei primi anni ’90, proprio quando il PCI si suicida -1991- e tuttora questa giusta lotta dura).

Giorgio è il più giovane dei tre personaggi principali del romanzo di Favaro. Ha vent’anni ed è un giovane “rivoluzionario” dei giorni nostri. La sua militanza (anch’essa, seppur tanto diversa e certamente meno “consapevole”, sul piano rivoluzionario, di quella di Amadeo, anch’essa è “totale” e si materializza nel movimento “Fridays for Future”, di essenza ambientalista e, seppur ancora vagamente, anticapitalista (l’unica cosa che non possiamo perdonare a Favaro, ce lo permetterà, è l’inserimento di Greta Thunberg, attraverso, ci pare, le parole di Giorgio, nel fronte rivoluzionario. Ci chiediamo se questa sia un’ingenuità politica dello stesso Autore o un segno della cultura politica di Giorgio, cioè la costruzione, da parte dello scrittore, di un profilo politico e culturale di un personaggio: non siamo riusciti a sciogliere il nodo…). Giorgio, dunque, nel chiaro intento di Favaro, vuol rappresentare una terza fase, quella attuale, caratterizzata, specie tra i giovani, dall’assenza dello spessore rivoluzionario marxista, leninista, gramsciano, ma dall’ancora tenace presenza di pulsioni rivoluzionarie e fortemente inclini alla trasformazione sociale, assieme alla trasformazione di sé, assieme alla spinta alla fuoriuscita dall’alienazione generale. Rendere il profilo politico ed esistenziale dei personaggi non vuol dire misurarne, dal punto di vista letterario, la consistenza, ma su ciò integriamo immediatamente: i personaggi di Favaro, ed ecco rimarcata una delle più importanti qualità dal punto di vista letterario, non hanno nulla di cartaceo, ma escono fuori, vivi, dalle pagine del romanzo.

Certo è che Favaro non tratta la realtà delle cose con lo stesso metodo liquidatorio di certe, attuali, “avanguardie” ma, una volta collocati i personaggi, gli “idealtipi”, su di un fronte rivoluzionario o potenzialmente rivoluzionario, cerca di capire se, “sotto il vestito” ci sia il niente o qualcosa vi sia, in forma magari primordiale e magmatica.

Proprio per il suo carattere di romanzo popolare, pur segnato dal razionale “freddo” e svuotato dalla retorica di un Dumas dalla “penna composta” di Favaro (Amedeo non è mai Athos, né Luca e Giorgio sono mai Porthos o Aramis, ma forse, per rimanere nell’allegoria, è più possibile che l’Autore sia D’Artagnan) i fatti, nell’opera prima di Favaro, si succedono a ritmo sostenuto e noi non li inseguiamo, puntando all’essenza delle cose, al “motore immobile” aristotelico delle cose. Un “motore immobile” che non può che essere questo, nella trama di Favaro: Amedeo, già nel 1984, si rende consapevole che il Pci a cui tanto ha creduto quale soggetto della rivoluzione, della rivoluzione non può e non vuol saperne più nulla e, da allora, Amedeo, è alla ricerca del nuovo soggetto della trasformazione, al quale, peraltro, affidare le risorse sovietiche ancora “congelate” in banca. La caduta di ogni illusione rivoluzionaria sul Pci, Amedeo, l’avrà, secondo il romanzo di Favaro, il 7 giugno del 1984, a Padova, quando Amedeo incontra Enrico Berlinguer e il Tesoriere del partito (il compagno Armando, nel romanzo). E, dal Tesoriere del partito, Amedeo avrà la conferma, con un silente Berlinguer a confermare, che la ricchezza depositata in banca non servirà più a nessuna rivoluzione, che, anzi, il Pci non ha, da tempo, nessuna intenzione di fare la rivoluzione. Che – continua a svelare il Tesoriere ad Amedeo (siamo a pagina 378) – “ormai era esaurita la spinta propulsiva del passato, anzi (il Pci…) considerava quella prospettiva ormai dannosa rispetto alle conquiste che stava ottenendo nel quotidiano; si era in una nuova fase, bisognava stringere un patto con le altre forze”. È il “compromesso storico”, con tutta evidenza.

Ed è da questo 7 giugno 1984 del romanzo che Amedeo prenderà pienamente coscienza della fine della spinta rivoluzionaria del Pci e inizierà a pensare a come investire le risorse, ferme in banca, in un altrove rivoluzionario. In questo frangente della storia romanzata sorge una domanda per Favaro: tu, caro Autore, metti attorno al tavolino del caffè di Padova, dove avviene l’incontro tra il Tesoriere del PCI e Amedeo, anche il segretario del partito di allora, Enrico Berlinguer, che nella realtà delle cose morirà proprio a Padova 4 giorni dopo l’incontro romanzesco, e cioè l’11 giugno del 1984.  Per chi scrive non è facile decodificare: vuoi forse dire che è la stessa morte di Berlinguer ad ergersi come simbolo della fine della spinta rivoluzionaria del Pci? Se questa fosse la tua lettura delle cose, caro Autore, caro compagno Nicola Favaro, chi scrive non sarebbe certo d’accordo, nel senso che la spinta rivoluzionaria del Pci si era determinata anche con Berlinguer e con la sua politica concreta.

Ma tornando al romanzo: Amedeo, rimasto rivoluzionario, ad un certo punto entra nell’ordine di idee (e arriva a ciò conoscendo, “sentendo” a mano a mano l’animo e l’inclinazione rivoluzionaria di Giorgio e di altri giovani del suo mondo, un’inclinazione che, seppure ancora largamente immatura e colma di contraddizioni, come rivoluzionaria, nell’essenza, lo stesso Amedeo la percepisce) di investire politicamente lì, nel mondo giovane di Giorgio, le risorse ferme in banca.

Suggerimento, forse non dovuto e forse troppo pignolo e “burocratico”, al lettore di questa recensione: appare ovvio che le risorse sovietiche in banca siano la metafora delle grandi risorse storiche e teoriche che la storia senza  pari di tutto il movimento comunista e operaio mondiale ha lasciato all’attuale movimento operaio complessivo italiano e che Amedeo, consapevole dello stato di crisi dell’attuale movimento comunista e rivoluzionario italiano, cerchi, quasi disperatamente, un nuovo movimento di lotta, una nuova forza comunista e rivoluzionaria in grado di ereditare e mettere a valore la fortuna sovietica bloccata in banca e, cioè, in grado di farsi interprete attuale della inesausta, e oggi ancor più viva che mai, spinta rivoluzionaria mondiale, comunista e antimperialista, storica e contingente. Favaro, anche in questo caso volens nolens, non ci sta forse consegnando un compito?

Ora, il recensore vorrebbe mettere a fuoco un punto: una recensione non è, non deve essere, un esame di ideologia e di politica per l’opera trattata e per il suo Autore. Una recensione rimane innanzitutto un tentativo di valutazione della bontà e della potenza letteraria di un’opera, una valutazione, certo, che non può prescindere dall’orientamento ideologico dell’opera stessa (non si potrà mai recensire “garbatamente” Gabriele D’annunzio prescindendo, serenamente, dalla struttura letteraria intimamente superomista, “nicciana” e spesso fascista della sua opera), ma quando, com’è il caso del romanzo di Favaro, l’intento dell’opera punta chiaramente alla ricerca di una nuova opzione politica, sociale ed esistenziale rivoluzionaria, diventerebbe assurdo, surreale ed antitetico al senso stesso d una recensione letteraria diretta a far circolare il meglio di un pensiero nuovo, utilizzare ferree griglie ideologiche per “dare un voto”, ultra ideologico, all’opera letteraria stessa.

In verità, un’attenta lettura di Là dove fischia il vento ci avverte che nuovi e giovani scrittori, abbandonando il facile terreno della letteratura dei “disperati amori”, del thriller e del sangue versato tanto all’euro, della letteratura tutta avvinghiata sulle ormai insopportabili, diverse crisi esistenziali delle diverse generazioni, provano a ricollocare la letteratura stessa nello spazio che le compete: quello di Balzac e di Stendhal, di Emil Zola e di Grazia Deledda, delle contraddizioni storiche e sociali, del malessere sociale collettivo, della verità carsica e della ricerca di nuove vie per il cambiamento sociale e culturale di massa.

Se, di fronte ad un valore letterario innegabile come quello offerto da Favaro e di fronte ad una volontà nuova volta a mettere la letteratura al servizio della comprensione e all’auscultazione (Lenin) dei moti sotterranei del divenire sociale (ciò che dovrebbero fare i rivoluzionari e gli artisti, quello che gli artisti, quando sono veri, spesso fanno, come nel caso di Favaro) convivono alcune “ingenuità” (spesso proprie, peraltro, di ogni opera prima), bene, ce ne faremo una ragione, poiché poi, ciò che resta, è questo romanzo che di nuovo vuol portare allo scoperto le pulsioni al cambiamento, le potenziali spinte alle trasformazioni in seno alla società e con queste (anche da parte di alcuni seriosi soloni, ideologicamente strutturati come quei grattacieli tutti d’acciaio e cemento, così rigidi che alla prima scossetta tellurica crollano) misurarsi.

“Là dove fischia il vento”, peraltro, noi dobbiamo esserci!

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