AMO GLI ASTENSIONISTI, ODIO I RASSEGNATI

Mai così distanti dalla politica, un italiano su due non vota per un parlamento europeo che non conta nulla e che serve solo di copertura di una finta democrazia “liberale”, guerrafondaia, violenta con i lavoratori, servile con le lobby e i potentati economici. Non votare per questa Europa non è “indifferenza” è, per molti, l’unico atto di ribellione di rifiuto del teatrino dei pupi della politica che siano essi di destra o di sinistra, vengono tutti mossi da mani nascoste.

Come trasformare questa ribellione in consapevolezza, lotta e trasformazione dello stato delle cose presenti è il compito di noi comunisti.

Non è vero che quello di oggi è l’unico mondo possibile, l’unica realtà esistente. Vogliono farcelo credere, hanno bisogno che lo pensiamo, ci illudono facendoci credere che mettendo qualche croce su un foglio di carta esercitiamo una qualche scelta, ma sappiamo bene che così non è che si tratta di una recita, di un tavolo politico truccato affinché, comunque, tutto resti sotto il controllo dei “pupari”.

Prendere coscienza di tutto ciò è il primo passo necessario; chi non ha votato alle Europee è già un passo avanti rispetto a chi, votando qualche lista eco-pacifista continua a illudersi. Un passo avanti perché reagisce, non si rassegna al “meno peggio” ad illudersi di essere parte di un gioco “democratico”. Il secondo passo in avanti deve essere quello di unirsi, di fare squadra tra tutti coloro che non si rassegnano, di organizzarsi a resistere e costruire qualcosa di nuovo. La politica, quella fatta nei “palazzi” del potere, oggi più che mai, è funzionale al sistema economico di sfruttamento e militare guerrafondaio, da quel versante non c’è più nulla da aspettarsi se non ancora lacrime e sangue per il popolo, repressione e limitazione dei diritti. È nei luoghi di lavoro, nei nostri territori devastati che occorre ricostruire unità e resistenza, costruire l’alternativa al modello produttivo e sociale esistente. Impossibile? No, oggi come non mai, invece è a portata di mano: il mondo sta cambiando, i vecchi modelli economici e culturali sono in profonda crisi (e vogliono la guerra per salvarsi e ricominciare) mentre nuove realtà geo-politiche si organizzano e chiedono pace, rispetto e prosperità per tutti i popoli. L’Europa muore perché è asservita e sacrificata agli interessi degli USA e della Nato e perché la struttura economica fondata sul colonialismo e la predazione del terzo mondo, sullo sfruttamento del lavoro a favore del profitto privato, della devastazione dell’ambiente,  con le sue sovrastrutture politiche-ideologiche, a cominciare dai mezzi “d’informazione”, è una strutture economica non più in grado di rappresentare gli interessi del popolo che, infatti si disinteressa al teatrino di finte contrapposizioni e richiami roboanti.

Per i comunisti è necessario capire tutto ciò, è indispensabile avere chiaro che l’unica possibilità per il cambiamento e per salvare il nostro Paese non passa attraverso il teatrino della politica ma, partendo dai bisogni reali delle persone, dei lavoratori, costruire la lotta e la resistenza al sistema capitalista. Di costruire nuove “case matte” di aggregazione e tutela del popolo della sua salute, della sua istruzione, per condizioni di vita migliori e solidali. Al tempo stesso serrare l’unità dei lavoratori per riprendere la lotta di classe contro chi sfrutta e si arricchisce.

Per i comunisti la nuova sfida è quella di organizzarsi nel Partito non per qualche posto in parlamento non per assecondare il teatrino della politique politicienne  e dei loro lacchè ma per la rivoluzione, per il cambiamento. Il futuro partito dei comunisti deve essere il sostenitore, il promotore di comitati, coordinamenti, associazioni che raccolgono la maggioranza degli italiani scontenti e delusi e che per loro sia il faro che indica il percorso la soluzione, l’alternativa a questo sato di cose.

Astenersi dal voto e impegnarsi nella lotta per poter tornare a contare e decidere.

Gianni Favaro 10 giugno 2024

Qui di seguito il capitolo n.19 tratto dal volume “Primi appunti politico- teorici” prodotto dal lavoro collettivo di intellettuali e lavoratori per il Movimento per la Rinascita Comunista. Il testo integrale del documento è scaricabile da questo blog (articolo in data 23 maggio) o può essere richiesto alla casa editrice Ventura Edizioni al costo di 13 euro.

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Astensionismo e crisi della democrazia rappresentativa parlamentare

Uno degli aspetti più dibattuti della politica italiana – purtroppo spesso affrontato con naïveté quando non con la saccente arroganza e l’approccio moralistico/ideologico così tipici del giornalismo nostrano – è il rapido, costante ed inesorabile aumento dell’astensionismo elettorale, sia a livello nazionale che locale.

A partire dalle elezioni del 1979 l’affluenza alle consultazioni parlamentari ha subito un progressivo e quasi continuo calo che l’ha portata dal 93,4% del 1976 al 63,8% del 2022; nelle elezioni locali, ormai, è vicino il punto in cui più della metà degli aventi diritto decideranno di non esprimere la loro preferenza nelle elezioni regionali e comunali.

Per poter invece analizzare e comprendere in profondità questo importante fenomeno, è a nostro avviso necessario far uso degli affilati strumenti scientifici che Marx e Lenin ci hanno lasciato in eredità, ovvero il materialismo storico e quello dialettico.

Strumenti teorici

Innanzitutto, è d’uopo ricordare il primato della struttura sulla sovrastruttura, ovvero dei modi di produzione sulle modalità di organizzazione politico-culturale – primum vivere deinde philosophari. In poche parole, sono i rapporti sociali che scaturiscono da un dato modo di produzione a plasmare i modelli politici, ideologici e culturali di un’epoca storica.

D’altro canto, il rapporto tra queste due categorie, come Marx e Lenin hanno perfettamente compreso ed insegnato, non è un rapporto rigido e gerarchico ma piuttosto un rapporto dialettico, in cui struttura e sovrastruttura interagiscono costantemente influenzandosi a vicenda.

Giova qui ricordare che l’opera di Marx rifugge qualsiasi approccio meccanicistico o deterministico, limitandosi – come egli stesso disse in diverse occasioni – ad una disamina rigorosa e scientifica degli insegnamenti che la storia ci ha dato ed alla possibilità di trarre da questa analisi alcuni elementi strutturali che possano indicarci i possibili assi strategici in cui i modi di produzione ed i rapporti sociali ad essi connessi potrebbero evolversi.

Quello che resta assodato è che nella storia dell’uomo viene un momento in cui la struttura economica e la correlata sovrastruttura politico-ideologica, cristallizzate in un complesso reticolo di interessi e credenze che pervadono tentacolarmente tutta la società, non sono più in grado di gestire una realtà di fatto ormai troppo distante da quella che ad esse diede origine.

A questo punto gli strumenti evolutivi di carattere lineare (riformismo, progressismo e liberalismo) dimostrano tutta la loro patente incapacità di fungere da elementi equilibratori delle sottostanti dinamiche economico-sociali, cedendo il passo all’unico strumento in grado di gestire un cambiamento discontinuo: la rivoluzione.

Non è questo il luogo ed il momento di affrontare in maniera dettagliata questo specifico argomento, ma basterebbe studiare la rivoluzione industriale del XVIII secolo come momento di netta discontinuità tra il modo di produzione curtense e quello capitalista per cogliere tutta la sua portata rivoluzionaria non solo in termini di modo di produzione ma anche, conseguentemente, di rapporti sociali e sovrastrutture di potere politico.

Bisogna però chiarire che Marx si è sempre ben guardato dal profetare la “necessità storica” del comunismo, limitandosi ad affermare che – almeno fino ad oggi – la storia ha dimostrato che ogni modo di produzione ha sempre, inevitabilmente, raggiunto un momento di crisi insormontabile, sfociato altrettanto inevitabilmente in una rivoluzione, intesa come momento di discontinuità rispetto a “ciò che vi era prima”.

Le ragioni di tali crisi sono profondamente connaturate alla discrasia tra la capacità di un determinato modo di produzione di creare un costante incremento di valore e la sua incapacità di sostenere durevolmente questa crescita, con la conseguenza, fra l’altro, di causare l’impossibilità di gestire in maniera lineare i rapporti sociali cristallizzati nelle sovrastrutture da esso generate.

Questi rapporti, e le sovrastrutture in cui essi si incarnano politicamente, si rivelano quindi via via incompatibili con una realtà di fatto ormai ontologicamente e radicalmente diversa da quella sorta dal passato affermarsi del modo di produzione in questione.

Cosa sorgerà effettivamente dalle ceneri dell’inevitabile crisi del modo di produzione capitalista, Marx e Lenin non lo dicono, ed anzi si guardano bene dal profetizzare una qualsivoglia deterministica inevitabilità del comunismo, sottolineando invece come le condizioni oggettive da sole non sono sufficienti al trionfo di un determinato nuovo modo di produzione se ad esse non faranno da contraltare delle specifiche condizioni soggettive, capaci di fare da levatrice alla tanto agognata futura società.

Analisi dell’astensionismo

Affinati dunque i presupposti teorici del rapporto tra struttura e sovrastruttura e delle specifiche ragioni dell’inevitabilità della crisi di ogni struttura e sovrastruttura che l’essere umano si è finora dato, possiamo affrontare con un’adeguata strumentazione teorico-scientifica il sopracitato fenomeno dell’astensionismo politico in Italia.

Fino ad oggi non ci risulta che tale argomento sia stato affrontato in maniera seria ed articolata, limitandosi i pochi tentativi – che non siano un santimonioso appello ad un non ben definito “dovere civico” o la stolida, velata minaccia per cui “chi non vota deve solo subire il volere della maggioranza” – a concludere che gli odierni partiti politici non rappresentino più le esigenze di ampie fasce di cittadinanza.

Tale conclusione, non priva di un suo interesse, non riesce a nostro avviso a cogliere l’elemento più interessante ed importante della questione: non sarà forse l’intero sistema della cosiddetta democrazia rappresentativa parlamentare a non rappresentare più le esigenze di queste fasce di cittadinanza?

A nostro avviso, questa ipotesi potrebbe essere in realtà quella corretta: anche se in maniera confusa, frammentaria e talvolta espressa in maniera populisticamente ignorante – “sono tutti dei ladroni!” – l’astensionismo esprime, almeno in una certa, non negligibile misura, l’emergere della coscienza diffusa dell’inadeguatezza del sistema rappresentativo proprio della democrazia liberal-parlamentare a farsi carico delle reali esigenze di una società che non è più quella dell’ottocento e dei primi del novecento.

Cos’è cambiato da allora? Consideriamo innanzitutto che agli esordi della democrazia liberal-borghese la stragrande maggioranza della popolazione (persino ampi strati della piccola/media borghesia) non aveva né gli strumenti intellettuali né l’accesso alle informazioni necessari a comprendere in maniera almeno basilare le problematiche spesso complesse ed ingarbugliate su cui i parlamenti si arrogavano l’esclusivo potere decisionale. Tant’è che quelle minoranze che si dotavano degli strumenti intellettuali e informativi necessari (vedi ad esempio il proletariato istruito e formato dai partiti comunisti) comprendevano rapidamente la natura ingannevole e meramente formale delle assemblee soi disant democratiche e liberali.

Soprattutto, il corpo sociale italiano non arrivava a comprendere che, lungi dall’essere un sistema democratico, quello della rappresentanza parlamentare era un congegno meticolosamente disegnato per espropriare il popolo di ogni pur minimo potere decisionale sulle materie veramente importanti. In poche parole, era il popolo stesso a ritenersi “troppo ignorante” per arrogarsi il potere di decidere del suo stesso destino.

Inoltre, le costituzioni in primis, ma soprattutto il potere informale della stampa, della cultura ed in seguito dei media radiotelevisivi (ben forniti di quei mezzi economici che i detentori del vero potere, ovvero del capitalismo finanziario globale, gli hanno sempre elargito a piene mani) provvedevano a presidiare con dovizia di mezzi la “sacralità” della democrazia liberale, giungendo ad instillare nel popolo la convinzione che, di fatto, la democrazia non potesse dirsi tale se non liberale e rappresentativa – e soprattutto incensando costantemente la sacralità della proprietà privata dei mezzi di produzione di massa, da difendere e preservare ad ogni costo.

Ove non giungeva la mielosa propaganda dei media “democratici” col loro corteo di “diritti inalienabili” (solo formalmente, ben s’intende) e di retorica liberale, era sempre pronto il neofascismo stragista di servizio a creare quel senso di paura ed incertezza necessario ad orientare il gregge verso una riconoscenza incondizionata verso il pastore ed i suoi cani da guardia, unica e necessaria fonte di “sicurezza” e “garanzia di democraticità”.

L’avvento di internet e la progressiva scolarizzazione ed inculturazione delle masse hanno però “rotto il giocattolo” così gelosamente custodito dai media classici, rendendo via via più disponibile e meno filtrata l’informazione e l’analisi politica; certamente l’enorme dovizia di informazione reperibile on-line ha creato anche l’emergere di deliri complottisti e il proliferare delle cosiddette “fake news” – ma chi può essere davvero certo di cosa è informazione corretta e cosa è complottismo, soprattutto quando i media liberali mestano nel torbido ergendosi ad inappellabili censori della verità?

Sta di fatto che oggi sempre più cittadini italiani si pongono la vexata quaestio: c’è veramente una differenza sostanziale tra votare a destra o a sinistra? Vale davvero la pena di votare? Perché, qualunque partito si voti, si finisce per restare inamovibilmente nella NATO, nell’Unione Europea, nel novero dei succubi servi sciocchi degli USA, sempre pronti a spalleggiare l’avventurismo militarista e golpista del potere americano? Perché, qualunque partito si voti, i salari ed i diritti dei lavoratori diminuiscono, la sanità si sfascia sempre di più, la scuola e la giustizia fanno sempre più acqua da tutte le parti?

Tornando all’inizio, non sarà forse che il sistema rappresentativo liberal parlamentare – rectius i poteri che ad esso stanno dietro – ha ormai sviluppato gli anticorpi per neutralizzare ogni tentativo di riforma dall’interno, e che ormai l’unica speranza di cambiamento può venire solo da un tratto di discontinuità radicale – in poche parole, un momento rivoluzionario?

Se così è – e noi pensiamo che così probabilmente sia – è possibile che fasce sempre più ampie della società italiana si stiano rendendo gradualmente conto di questa verità, e che marchino con un crescente astensionismo il rifiuto di una partita truccata nella quale i vincitori possono esser ora la destra ed ora la sinistra, ma i perdenti sono sempre, inevitabilmente, i lavoratori, gli artigiani, i piccoli imprenditori, i pensionati ed in buona sostanza tutti quei cittadini che non godano di un rapporto preferenziale con il capitale finanziario globalizzato.

Prassi politica

A questo punto si rende necessaria un momento di riflessione profonda ed argomentata che definisca quale dev’essere il rapporto tra un costruendo rapporto comunista ed il fenomeno astensionista. Come dovrà porsi un partito comunista verso coloro che – da qualunque esperienza e sensibilità provengano – hanno cominciato ad intravedere l’inutilità di partecipare alla farsa elettorale italiana? Dovrà trovare argomenti convincenti per spiegare il carattere meramente tattico di un’eventuale campagna elettorale volta all’ingresso nelle istituzioni o dovrà intraprendere l’arduo cammino dell’astensionismo strategico?

Nel compiere questa riflessione, dobbiamo ricordarci due cose: in primis, l’insegnamento di Lenin secondo il quale il parlamento non è mai un fine, ma semmai un mezzo – in poche parole, “un prodotto dello sviluppo storico che non si può eliminare sino a che non si è abbastanza forti da sciogliere il parlamento borghese”. Ma accanto a questa importantissima considerazione, ricordiamoci anche che i parlamenti di oggi – e la loro percezione odierna da parte delle masse – non sono più quelli dell’epoca di Lenin, come ampiamente discusso sopra.

Si impone quindi la classica “analisi concreta della situazione concreta”, tanto cara a Lenin: che senso avrebbe oggi per un partito comunista continuare a porsi nell’ottica di un ingresso in parlamento, seppur visto come mero mezzo, cassa di risonanza per la sua comunicazione e per il suo programma? Come verrebbe percepito questo approccio da una società che si avvia a comprendere la futilità e l’ipocrisia del parlamentarismo rappresentativo liberaldemocratico?

Questa questione non può essere risolta qui ed ora, in queste considerazioni programmatiche preliminari, ma si pone comunque come un aspetto ineludibile che un futuro partito comunista dovrà affrontare e risolvere all’atto della sua costituzione, considerando in maniera accurata e scientifica qual è l’approccio concretamente più opportuno per realizzare l’obiettivo politico strategico che dev’essere, lo ricordiamo, non un eventuale ingresso in parlamento ma piuttosto l’effettiva presa del potere, un obiettivo che, lo ricordiamo, non può prescindere dalla comprensione concreta e dialetticamente orientata della situazione sociopolitica odierna.

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