I referendum della Cgil. Forti perplessità su uno strumento, il referendum, che potrebbe diventare un boomerang contro i lavoratori

di Vladimiro Merlin responsabile nazionale Lavoro del MpRC

La Cgil ha deciso di raccogliere le firme per quattro referendum che riguardano: il reintegro per i licenziamenti immotivati (ex articolo 18), abolizione del tetto massimo di indennizzo per i
licenziamenti illegittimi nelle aziende al di sotto 15 dipendenti, l’abolizione delle norme che hanno liberalizzato il lavoro a termine e l’estensione della responsabilità nel caso di infortuni sul lavoro alla impresa appaltante.

Il contenuto di questi quesiti è assolutamente condivisibile e riguardano questioni fondamentali per quanto riguarda la condizione dei lavoratori, oggi, nel nostro paese.

Ma vi sono alcune problematiche che pesano, come macigni, sulla scelta dello strumento referendario.

La prima è la natura dello strumento scelto; nel referendum votano tutti, non solo i lavoratori ed i datori di lavoro, che sono i soggetti che si confrontano nella contrattazione e nel conflitto sindacale.

Un’importante esperienza negativa, in questo senso, l’abbiamo già vissuta, in Italia, ed ha avuto conseguenze molto pesanti per i lavoratori, si tratta del referendum sulla Scala Mobile del 1985.

La sconfitta, seppure di misura, in quel referendum, determinò una pesante battuta d’arresto per il movimento dei lavoratori e l’inizio di un processo che arrivò allo smantellamento completo della Scala Mobile, lasciando, dopo di allora, gli stipendi dei lavoratori e le pensioni completamente in balia dell’inflazione.

Quella pesante sconfitta maturò in un contesto che era enormemente migliore rispetto a quello attuale per il movimento dei lavoratori.

Prima di tutto sul piano politico, infatti, sostennero il SI al referendum: il Pci (che aveva circa il 30%); quella che era chiamata sinistra rivoluzionaria, che aggiungeva alcuni punti percentuali; e nel corso della campagna referendaria anche il Msi si pronunciò per il SI, ed era, allora, attorno al 5%.

Il complesso delle forze politiche che sostenevano il SI raggruppava, quindi, circa il 40% dell’elettorato.

Se guardiamo al quadro politico attuale sarebbero a favore: Alleanza Verdi-Sinistra, il Movimento 5 Stelle, una parte, ma solo una parte, a quanto pare minoritaria, del Pd, infatti, quando la segretaria Schlein ha dichiarato di firmare i referendum vi è stata una levata di scudi di molti dirigenti del partito; si può pensare,quindi,complessivamente, ad una fascia tra il 25 e il 30% dell’elettorato, uno schieramento molto più debole che nel 1985.

Ma non è solo sul terreno politico che si è più deboli, anche su quello sindacale, ed in generale del movimento operaio, perché in quel momento la forza di mobilitazione e la capacità di attrarre consenso sociale del movimento dei lavoratori era molto maggiore rispetto ad oggi.

Ad indebolire la forza del movimento dei lavoratori, in quel passaggio, contribuirono un sostegno  ed un impegno per il SI non adeguati da parte della Cgil; adducendo la scusa di non provocare uno scontro con i socialisti, Lama mantenne il suo sindacato in una posizione defilata, lasciando agli iscritti “libertà di coscienza” nel voto referendario, facendo mancare quell’apporto che avrebbe potuto essere determinante per la vittoria.

Anche oggi, a quanto pare, settori della Cgil  non condividono la scelta del Referendum, questo sarebbe un ulteriore elemento di debolezza che, assieme a quanto già visto, ci rende poco comprensibile la scelta di giocarsi questa carta senza avere un quadro di forze a sostegno che possano, quantomeno, dare la possibilità di una vittoria.

Nel 1985, con un quadro sociale e politico più favorevole, si perse con il 46% di SI ed il 54% di NO, non fu una disfatta ma, come abbiamo già accennato, le conseguenze furono comunque pesanti per il movimento dei lavoratori, come si può pensare, oggi, di fare meglio?

Non si riesce a capire la ratio di questa scelta di Landini, si potrebbe ipotizzare che pensi, pur raccogliendo le firme, di non arrivare al voto, utilizzando l’arma (dal mio punto di vista, spuntata) della minaccia del voto referendario per ottenere (dalla attuale maggioranza parlamentare?) una modifica della legge.

Ma come si può pensare che l’attuale governo, cosciente di avere non solo la sua maggioranza ma anche settori della cosiddetta opposizione, come Renzi, Calenda e, come abbiamo visto, anche una parte consistente del Pd, nello schieramento per il NO, possa essere disponibile ad evitare un voto che gli consegnerebbe una vittoria certa.

Non riesco a concepire altre possibili ipotesi che possano giustificare la scelta di alzare una pietra, il referendum, che può finire sui piedi di chi l’ha sollevata.

Non so se dietro questa scelta vi siano ragionamenti più politici che sindacali che, comunque, mi risultano incomprensibili.

Detto questo, bisogna considerare anche altri aspetti.

Il primo riguarda come si pensa di avvicinarsi ed arrivare all’appuntamento del referendum.

Dato che la forza del movimento dei lavoratori oggi, in Italia, non è quella del 1985 e la pratica che si è consolidata, nei sindacati confederali, è quella della concertazione e dei “tavoli” con i governi, senza nessun reale conflitto sociale a sostegno delle vertenze o dei contratti, si pone la questione di imboccare una strada diversa se si vuole che, al futuro appuntamento del referendum, il movimento dei lavoratori non arrivi nell’inerzia della attuale passività ma sull’onda di una campagna di mobilitazione e di lotte che aumentino la sua forza ed il suo consenso sociale.

Prima di tutto la Cgil dovrebbe abbandonare la pratica degli scioperi episodici, perlopiù di protesta, cioè a babbo morto, come dicono in Toscana, e le illusioni di essere “ascoltata” dai vari governi e definire una piattaforma rivendicativa; le questioni aperte sono innumerevoli, a cominciare dai contratti scaduti da anni e non rinnovati, o dalla questione salariale che riguarda la totalità dei lavoratori italiani, stabili o precari, pubblici o privati, e mi fermo qui con gli esempi, ed aprire su di essa una stagione di lotte, cominciando dal prossimo autunno, anche in relazione alla legge finanziaria che ci aspetta, con lo spostamento di risorse verso le armi e la guerra a danno della spesa sociale.

Con un percorso di questo tipo si potrebbe arrivare alla scadenza referendaria con un movimento dei lavoratori più forte, più cosciente e più attivo, in grado di affrontare il passaggio referendario con un maggiore protagonismo, all’opposto del sentimento di sconfitta e di passività che caratterizza, oggi, la larga maggioranza dei luoghi di lavoro.

Questa pratica del conflitto dovrebbe essere la norma per qualunque sindacato che intenda difendere realmente e rappresentare i lavoratori ma, se anche in occasione del referendum si pensasse di arrivarci sulla base del solito tran tran, il pericolo di una sconfitta pesante, che potrebbe condizionare in negativo, per i prossimi anni, i rapporti di forza tra movimento dei lavoratori, da una parte,  e padronato e governi, dall’altra, diventa estremamente probabile, se non quasi certo.

La Cgil che è il più grande sindacato italiano ha la maggiore responsabilità storica di rendersi, o meno, protagonista del conflitto sociale mobilitando tutti i lavoratori e le lavoratrici in una lotta generale.

Dato che ritengo non sia in dubbio il fatto che la Cgil riesca a raccogliere le firme necessarie per richiedere il referendum, si pone il problema di come affrontare un passaggio politico che sarà ineludibile, non solo per i comunisti, ma per tutti i soggetti sindacali di classe.

Nonostante le critiche e le forti perplessità che abbiamo espresso riguardo la scelta del referendum, nel momento in cui si avviasse la campagna referendaria e si arrivasse al voto, non è possibile rimanere taciturni ed indifferenti alla inevitabile battaglia politica che si aprirà.

In quel frangente noi avremo il padronato e sostanzialmente la totalità dei mezzi di (dis)informazione schierati per il NO, avremo tutte le forze di destra, Renzi e Calenda, e buona parte del Pd schierati per il No e i lavoratori non capirebbero se, in uno scontro di quel tipo, i comunisti e gli stessi sindacati extraconfederali che, nel merito, sostengono quei contenuti, si tirassero fuori dallo scontro, se tacessero, o addirittura aggiungessero le loro critiche a quelle degli avversari, senza battersi, contemporaneamente, a sostegno del SI, rischiando di apparire, agli occhi dei lavoratori, quasi dei complici degli avversari; nel corso della campagna per il SI ognuno, ovviamente può aggiungere le sue critiche ed i suoi distinguo, ma dentro il fronte per il SI.

Anche perché non si può non capire che anche se si perde conta molto la dimensione della sconfitta, se si perde di poco non è la stessa cosa di subire una batosta che poi, come abbiamo già detto, sarebbe destinata a pesare fortemente, nei rapporti di forza, almeno per alcuni anni, in una situazione che, già ora, è estremamente critica per i lavoratori italiani.

Neppure sarebbe la stessa cosa se, magari, non si raggiungesse il quorum, per cui il referendum sarebbe sconfitto, ma tra i votanti il SI risultasse superiore al NO.

Sono tutti aspetti che i comunisti e le forze sindacali di classe devono assolutamente tenere in debita considerazione, perché è dentro quei rapporti di forza che si determineranno dopo il referendum che tutti dovremo operare.

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