“Apokopé”: il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo” presenta ad Offagna (Ancona) l’ultimo lavoro poetico di Fosco Giannini

A cura della redazione

Sabato 9 marzo, ore 17.30, ad Offagna, provincia di Ancona, presso la Biblioteca Comunale, il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo” e la Casa Editrice Ventura, con il patrocinio del Comune di Offagna, organizzano la presentazione pubblica dell’ultima raccolta di poesie di Fosco Giannini, “Apokopé”. La raccolta è arricchita dalla prefazione del docente di diritto e scrittore Alberto Sgalla e dalla postfazione del sociologo e saggista marxista Carlo Formenti. Il sindaco di Offagna, Ezio Capitani, porterà i saluti del Comune, la professoressa Margherita Gallo presenterà l’opera di Fosco Giannini e Licia Fiordarancio interpreterà alcune poesie del volume.

“Poesie in forma di popolo”, “Inguria”, “Amaladé”, ora “Apokopé”: negli ultimi anni Giannini ha molto lavorato e pubblicato, conquistando il favore di una parte importante della critica letteraria d’avanguardia; delle sue raccolte, peraltro, sono state portate anche a teatro, registrando anche in questo caso – anche attraverso “l’entrata in campo” di attrici di grandi rilievo artistico e musicisti di valore, quali Marino Severino de “La Gang” – positive risposte di pubblico.

Che cos’è “Apokopé”? Che poesia fa Giannini?

“Apokopé” è una parola greca che significa taglio, amputazione e questo taglio si riferisce alla troncatura dialettale delle parole utilizzate da Giannini: pa’, per pane, vi’ per vino, e via tagliando. Quella di Giannini, dunque, è una poesia dialettale, di un dialetto anconetano, dunque dorico, dunque greco. Ma Giannini arriva alla sua poesia dialettale attraverso un lungo percorso semantico-estetico-letterario. Che così possiamo, rozzamente, evincere e sintetizzare dagli stessi scritti critico-letterari dell’Autore: “In Italia, tra gli anni ’70 e gli anni ’90, vi è stato il vasto fiorire di una poesia dialettale, in ogni provincia del paese. Ma tale “poesia” – che non giudico avere il diritto di chiamarsi, per la propria povertà letteraria, poesia -, benché dialettale era scritta quasi tutta dalla piccola borghesia delle province, dalla piccola borghesia delle professioni, lontanissima dal popolo e dal suo sentire. In questa “poesia”, in verità, il dialetto era sempre utilizzato come bieca e cinica caricatura del linguaggio del popolo, nel senso che si attribuiva al popolo un linguaggio così povero, volgare, privo di slancio ideale e ricchezza morale da segnare di sé la “poesia” stessa che voleva rappresentarlo, che risultava sempre essere, dunque, “poesia” priva di metafora, spiritualità, universalità: un rozzo, volgarissimo e falso richiamo al linguaggio del popolo”.

Il lavoro di “Apokopè” e dell’intera poesia di Giannini compie invece il percorso opposto: utilizzando la musicalità intrinseca e superiore del dialetto e della sua particolare forza evocativa ed evitando accuratamente (essendo parte della classe operaia, dei contadini, dei muratori, dei pescatori, dei fornai e via faticando e tribolando) la caricatura del popolo e del suo linguaggio, mette in campo una poesia che punta essere popolare e, insieme, universale. Per una poesia “dialettale” che proprio per la sua essenza – filosofica e letteraria – universale si fa poesia totale.

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